Menu Content/Inhalt
Home arrow Istituto Interculturale di Montréal arrow Notizie arrow Vita, morte e sofferenza. La visione di alcune tradizioni spirituali e religiose

In evidenza

 
Venerdì 19 maggio 2017 ore 20.45
presso il Centro Natura - Sala del camino

via degli Albari 4/a - Bologna

 

collana InterCulture
già rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal

presentazione del volume:

Vie di pace
 
intervengono:
Arrigo Chieregatti
direttore della collana

Antonio Genovese
pedagogista
 
Pace è consuetudine e scambio di vita fra gli uomini:
dalla famiglia al clan, al popolo, alla moltitudine delle genti.
Un cammino faticoso, perché l'uomo trova difficile
non mettersi al primo posto
considerando gli altri come vassalli.
Molte sono le vie della pace.
Questo volume ne esplora alcune.

 
scarica il programma dettagliato
 
Vita, morte e sofferenza. La visione di alcune tradizioni spirituali e religiose PDF Stampa E-mail
(ciclo di conferenze, marzo-aprile 2007)
Agustí Nicolau-Coll

Partendo dalla constatazione che il senso della vita, della morte e della sofferenza si inscrive sempre in determinati parametri culturali e religiosi che lo configurano, l’Istituto Interculturale di Montréal ha organizzato un ciclo di conferenze sul tema: Vita, morte e sofferenza. La visione di alcune tradizioni spirituali e religiose.
In questi incontri ci siamo chiesti come diverse tradizioni religiose e spirituali concepiscono la vita, la morte e la sofferenza, e come queste concezioni influiscono sul vissuto delle persone. Abbiamo inoltre cercato di vedere come prendere in considerazione questa influenza nel quadro dell’intervento psico-sociale e sanitario nei confronti di persone ammalate e/o prossime alla morte.
Il ciclo di conferenze ha riguardato quattro tradizioni spirituali e religiose: il vodu, l’induismo, l’ebraismo e il cristianesimo, sempre nella prospettiva dell’intervento psico-sociale e sanitario.

Il vodu (28 marzo)
Joseph Augustin, teologo ed esperto di cultura haitiana, ha iniziato la sua conferenza fornendo alcune chiavi di interpretazione del vodu. Ha insistito in primo luogo sul fatto che il vodu non deve essere considerato né come opera del demonio, né come una realtà selvaggia e ancor meno come una pratica legata alla magia. Ha spiegato poi che il carattere apparentemente segreto delle pratiche del vodu è il risultato della persecuzione che in passato colpiva gli schiavi e le loro credenze. Gli schiavi avevano circondato di segreto le loro pratiche per proteggersi, e questo ha permesso loro di continuare a praticare una spiritualità da cui attingevano forza.
Si tratta di una pratica millenaria già presente nell’Africa Nera e nell’Egitto dei faraoni. In sintesi, la pratica del vodu è un appello alle energie che fanno muovere l’universo, perché l’uomo possa trovare il proprio benessere mettendosi in sintonia con esse. Si invocano queste energie per stabilire con esse una relazione benefica. Shango è la divinità invisibile ma esistente, Bontà infinita e creatrice di tutte le energie. La vita, dunque, è il risultato della circolazione delle energie che vengono da Shango.
La sofferenza, nella religiosità vodu, ha un significato concreto e preciso. Non è concepita come una realtà astratta, come un senso di pena, di malessere o di disagio mentale, ma in rapporto con una malattia concreta e con il dolore fisico che l’accompagna. Nel vodu si è molto sensibili alla sofferenza altrui, a causa di un profondo senso della comunità.
La malattia è guaribile se viene da Shango, ma è molto più difficile da guarire se è provocata dagli uomini con un atto di magia. Allora lo Houngan (il guaritore) tenta di ottenere la guarigione andando alla ricerca di energie buone e applicandole alla persona malata.
La morte è vista come un passaggio verso una vita più grande. Per questo, malgrado la tristezza che la scomparsa di una persona provoca nella comunità, tutti gli amici del quartiere si riuniscono per celebrare la sua partenza. Le donne cucinano, gli uomini giocano a carte o a domino, mentre le prefiche levano grida per sottolineare l’importanza del defunto.

L’induismo (4 aprile)
Kalpana Das, direttrice generale dell’Istituto Interculturale di Montreal, ha iniziato la sua conferenza spiegando che l’induismo non è una religione istituzionalizzata ma un modo di vivere antico di 4000 anni, frutto della fusione delle tradizioni dravidiche del sud dell’India con quelle ariane venute dal nord. L’induismo comprende una grande varietà di pratiche, in cui tuttavia si rispecchia la stessa visione della realtà.
Nell’induismo non esiste il termine religione. Si parla invece di dharma, una parola polisemica che fra i suoi molti significati ha anche quelli di legge, via, buona condotta. In sostanza, il dharma è l’ordine cosmico, su cui è sostanzialmente fondata la società indù.
Alla base dell’induismo ci sono diverse nozioni filosofiche fondamentali. In primo luogo quella di Brahman, la Realtà Ultima, o Paramatman, il Sé universale, che non corrisponde esattamente alla nozione di Dio. Poi c’è l’Atman, che è il Sé personale. Un’altra parola per indicare la Realtà Ultima è Prana, il soffio vitale. La nozione di karma rimanda all’interrelazione causa-effetto, attraverso cui ogni atto è collocato in rapporto con l’ordine globale dell’universo. Abbiamo infine la nozione di moksha, la liberazione dal ciclo delle nascite tramite la dissoluzione del Sé personale (o Atman) nel Sé universale (o Paramatman). Ci sono quattro scopi particolari nella vita: kama, il desiderio umano; artha, il benessere materiale; dharma, la buona condotta nella vita e nella società; moksha, la liberazione ultima.
La vita di ogni persona è segnata dai samskara o rituali d’iniziazione alle diverse tappe della vita: brahmacharya, la tappa dello studio e della formazione; grihastha, la tappa del matrimonio e della vita familiare; vanaprastha, la tappa del pellegrinaggio o del ritiro nella foresta; sannyasa, l’ultima tappa, che è quella della rinuncia e della ricerca della liberazione ultima.
La morte è considerata un punto importante del ciclo della vita. È una realtà necessaria e anche desiderabile, perché la vita, se io non muoio, non può continuare e ricrearsi. Non è una cosa spaventosa che bisogna combattere ad ogni costo, ma un passaggio che bisogna accettare di compiere. Il suicidio non è visto come una cosa drammatica, ma non è auspicabile. La morte di un bambino è considerata un fatto anormale, e le morti per incidente appaiono come morti non naturali.
Nello stesso senso, la sofferenza fa parte del ritmo naturale delle cose, dato che la vita comporta inevitabilmente delle sofferenze, legate alla malattia (roga) o alla vecchiaia (jara). Bisogna vivere attraverso la sofferenza e il dolore, fisico, mentale o spirituale che sia. Bisogna tener conto del fatto che, se una persona è malata, lo sono anche la sua famiglia, la sua comunità e il cosmo stesso: l’interrelazione è totale.
Nell’infanzia si educa al distacco, soprattutto materiale, in particolare attraverso la non affermazione dell’io individuale e l’insistenza sul fatto che il Sé personale non è una realtà autonoma, ma piuttosto un riflesso del Sé universale.
Per far fronte alla malattia e alla sofferenza si può ricorrere a diverse persone che hanno ruoli precisi: il vaidya, che è il medico per il corpo fisico; lo jyotishi, che si occupa della dimensione cosmica e astrale; il pandit, incaricato dei riti sacri; il guru, che è il maestro spirituale.

L’ebraismo (11 aprile)
Joseph Gabay ha affrontato l’argomento a partire dalla nozione di creazione del mondo da parte di Dio. Nel sesto giorno della creazione, Dio ha concluso la creazione della natura. La missione degli uomini consiste nel trasformare la natura in cultura, costruendo il mondo in modo che Dio possa venire in esso. Si può dunque parlare di una coesistenza di Dio e dell’uomo. In questo senso, svolgere al meglio il proprio compito significa anche essere al servizio di Dio. La vita è concepita come un tempo assegnato ad ogni essere umano per costruire il mondo, facendolo passare dalla natura alla cultura.
La sofferenza è vista come il risultato di una mancanza di amore nella pratica religiosa. Nell’ebraismo ci sono 613 comandamenti fondamentali, ciascuno dei quali è collegato a un elemento del corpo fisico. Quando si ha male da qualche parte, si osserva un preciso comandamento per ottenere la guarigione. Il senso ultimo della sofferenza è il suo essere espressione di una mancanza di armonia con il mondo e con l’intera realtà. Nell’ebraismo si nota una chiara corrispondenza fra le nostre azioni e il modo in cui va il mondo.
La morte è percepita come una realtà in netta contrapposizione con la ragion d’essere dell’ebraismo, che è vivere e celebrare la Vita. Si tratta di un’impurità. Ma nello stesso tempo l’assurdità della morte è superata dalla preghiera e dal fatto che, al momento della morte, l’anima lascia il corpo e l’individuo si ricostruisce altrove a partire da una delle sue ossa. La vita sulla terra in realtà è soltanto un passaggio, per cui i cimiteri sono considerati come le case dei vivi che sono altrove. Il suicidio non è ammesso come scelta valida, perché è vietato disperare.

Il cristianesimo (18 aprile)
Robert Jacques, dottore in teologia e cappellano dell’ospedale Saint-Eustache, ha presentato innanzitutto una cronistoria delle risposte che il cristianesimo ha dato nel corso dei secoli sul senso della vita, della morte e della sofferenza.
Fin dall’inizio, il cristianesimo ha preso molto sul serio la morte e la sofferenza, dal momento che il Cristo stesso ha liberato l’uomo dal peccato attraverso la propria sofferenza e la propria morte. Questo ha spinto i cristiani ad avvicinarsi agli ammalati, a prendersi cura di loro e ad elaborare pratiche di guarigione. La fede cristiana si è sviluppata come fede nel Cristo sofferente, col rischio di una sopravvalutazione della sofferenza in sé, con tutte le esagerazioni e gli abusi che ciò avrebbe comportato. Nel cristianesimo dei primi secoli non troviamo molti riferimenti alla malattia. S. Agostino la concepisce come un frutto del peccato originale.
Nel medioevo si assiste alla maturazione della dimensione antropologica del cristianesimo, il che permette un grande sviluppo della compassione come parte integrante della spiritualità cristiana medievale. Tramite l’imitazione della sofferenza del Cristo è possibile comprendere e accettare la sofferenza umana.
Nel rinascimento, con la riforma protestante, si mantiene una concezione della sofferenza come via di assimilazione al Cristo, ma la salvezza è collegata alla grazia e non più alla sofferenza. La fede e la grazia sono ciò che salva, non la sofferenza. La controriforma cattolica attenua molto l’idea della sofferenza come fonte di merito in vista della salvezza. Pascal dice che la sofferenza serve a correggere l’anima. Nel XIX secolo si assiste allo sviluppo del pietismo, un movimento che vede nella sofferenza una via di purificazione e di espiazione dei peccati.
Ai nostri giorni è emersa in seno al cristianesimo una critica sana e serena della concezione di Dio come luogo d’origine della sofferenza. Si parla di un uso spirituale della sofferenza, nel senso che quest’ultima ci permette di comprendere meglio il significato della sofferenza del Cristo, ma non la si considera in se stessa come via di salvezza.
Dopo questa panoramica storica, il relatore ha affrontato il tema «soggettività e sofferenza», osservando che nel cristianesimo, come nelle altre tradizioni monoteiste (ebraismo e islam), il soggetto è una realtà distinta dal resto dell’universo, contrariamente a ciò che avviene in altre tradizioni, dove il soggetto è incluso in una totalità. In virtù di questa differenziazione, l’essere umano è considerato responsabile del male commesso e persino del male subito.
Come cappellano di un ospedale, il relatore ha cercato poi di rispondere alla domanda: «Quale condivisione della sofferenza dell’altro è ancora possibile nel mondo moderno?». Per dare una risposta adeguata, si è chiesto se il fatto di accompagnare una persona che soffre si ricollega a una ricerca di senso o alla ricerca di una via di guarigione. La maggior parte dei libri sulla cura delle persone ammalate e sulla spiritualità che l’accompagna vertono sulla ricerca di senso (che di fatto è un problema di chi presta le cure) più che sulla ricerca di una via per attraversare la sofferenza (che è il problema di chi riceve le cure). Il relatore ha sostenuto che è opportuno riconoscere e accompagnare gli atteggiamenti sviluppati dalla persona sofferente e ammalata piuttosto che cercare di imporle una qualche visione che voglia dare un senso alla sua sofferenza.
Ha quindi esposto brevemente le cinque posizioni che si possono assumere di fronte alla sofferenza, invitando chi accompagna le persone sofferenti a prenderne coscienza e a prestarvi attenzione: cercare di eliminarla ad ogni costo, considerandola come un fallimento; cercare di dominarla con la forza della volontà, affermando che volere è potere; accettarla passivamente, assumendo il ruolo della vittima; cercare di dissiparla attraverso una chiarezza di giudizio; e infine attraversarla in modo che non sia distruttiva, accettando che faccia parte del cammino ma senza considerarla in se stessa come il cammino.
Durante la prima conferenza, il moderatore aveva letto una frase del filosofo francese Gustave Thibon che rispecchia bene lo spirito di questi incontri:
«Ci sono due tipi di persone irrimediabilmente prive di nobiltà: quelle che hanno bisogno di essere felici per essere buone, e quelle che hanno bisogno di essere infelici per pensare a Dio. Il dolore della persona meschina si chiama vendetta, la sua gioia si chiama orgoglio e dimenticanza. La persona nobile è quella che la sofferenza rende tenera e la felicità conduce alla preghiera».1

1. G. Thibon, L’échelle de Jacob, Boréal Express, Montreal 1984.