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In evidenza

 
Venerdì 19 maggio 2017 ore 20.45
presso il Centro Natura - Sala del camino

via degli Albari 4/a - Bologna

 

collana InterCulture
già rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal

presentazione del volume:

Vie di pace
 
intervengono:
Arrigo Chieregatti
direttore della collana

Antonio Genovese
pedagogista
 
Pace è consuetudine e scambio di vita fra gli uomini:
dalla famiglia al clan, al popolo, alla moltitudine delle genti.
Un cammino faticoso, perché l'uomo trova difficile
non mettersi al primo posto
considerando gli altri come vassalli.
Molte sono le vie della pace.
Questo volume ne esplora alcune.

 
scarica il programma dettagliato
 
Cooperazione allo sviluppo - Un invito a ribaltare gli schemi PDF Stampa E-mail
di Pierfrancesco Prata

Si sono svolti mercoledì 5 marzo alla libreria Feltrinelli a Bologna e domenica 24 febbraio alla Casa per la Pace di Casalecchio due incontri di approfondimento sul numero 8 della rivista «Cooperazione allo sviluppo: un cavallo di Troia?».
Per quanto riguarda l’appuntamento alla Feltrinelli, a confrontarsi sul nuovo argomento sono stati i co-direttori della rivista, Arrigo Chieregatti e Bruno Amoroso, e Giorgio Dal Fiume, che si occupa di commercio equo-solidale per CTM altro mercato.
Chieregatti ha cominciato ponendo diverse domande: è possibile mettersi nei panni dell’altro, di questo altro che ci sentiamo in dovere e in obbligo di aiutare sempre e comunque? È possibile vedere le cose dal suo punto di vista, soprattutto per quanto riguarda la frequente presenza occidentale nelle sue terre?
Tutto va messo in discussione, a partire dal concetto di sviluppo. Abbiamo davvero il «dovere» di esportare progresso e tecnologia spesso non richiesti, mettendo ancora più a rischio un dialogo già difficilissimo? Davvero la nostra Carta dei diritti umani è unica e universale? Non rischia di essere anch’essa un autentico «cavallo di Troia»? Dice bene Chieregatti quando afferma che portare i nostri diritti umani in casa d’altri senza conoscere il contesto e quindi ignorandone apertamente effetti e realizzazioni in diversi ambiti, è ideologia. Per questo è fondamentale ripensare i ruoli odierni di tante situazioni: il nostro modello di scuola, di sanità, di pace, di giustizia, è davvero l’unico e il migliore per tutti? Spesso non ci accorgiamo che neanche concetti così «scontati» per noi possono non essere universali per qualcun altro.
È importante ammettere le proprie colpe, perché un dialogo è ancora possibile se facciamo un passo indietro incontrandoci sullo stesso piano, con un possibile arricchimento reciproco, poiché non basta tollerare, non basta essere sensibili o compiacenti; non sarebbe questo il modo giusto per avvicinarci. Dovremmo accettare magari qualche nuovo insegnamento da qualche cultura più «vecchia», mantenendoci aperti a queste domande così diverse e così nuove.
L’intervento di Dal Fiume ha sottolineato diversi punti interessanti degli articoli della rivista: il senso intrigante e positivamente provocatorio che muove alla ricerca, il senso di imbarazzo perché ha riportato punti critici sulle Ong, e soprattutto l’aver sottolineato il problema dei finanziamenti pubblici da cui le stesse dipendono, il che crea un problema non solo economico, ma di obiettivi, e quindi di una perdita di identità politico-culturale. Le sue osservazioni continuano riguardando la scarsa competenza, in taluni casi, del personale nel mondo, e il problema di fare cooperazione senza assalire le culture locali con la nostra fagocitante economia.
Infine Bruno Amoroso ricorda, tra le altre cose, gli scopi della rivista, che si propone di approfondire queste tematiche guardando ad ogni punto di vista, scavando sulle ragioni che fanno sì che ogni cultura esprima la propria opinione, e prefiggendosi di non giudicare le politiche o gli avvenimenti, ma di riflettere sulle radici culturali che, intrecciandosi con i processi politici ed economici, determinano quello che è l’esito degli eventi.
Ad approfondire invece le tematiche assieme ai lettori alla Casa per la Pace era presente, oltre al direttore Arrigo Chieregatti, Emanuela Tamborini, ex membro di una ONG e profonda conoscitrice del cosiddetto dono degli Dei che rischia di diventare origine della distruzione. In questo modo infatti la nostra ospite definisce queste organizzazioni, sottolineando però insieme ad Arrigo il fatto che non si vuole attaccarle gratuitamente, ma semplicemente riflettere sul loro ruolo.
In questa festa del pensiero cominciamo a concentrarci sull’articolo di Kalpana Das, addentrandoci in complicati sentieri nell’eterno dualismo tra poveri ed impoveriti, tra sviluppatori e sottosviluppati: proprio le sue parole ci mettono in guardia dall’usare termini del genere nell’esprimersi sull’argomento, perché possono condizionare atteggiamenti e punti di vista. L’invito, più che a cercare definizioni appropriate, è a trovare un linguaggio adeguato per confrontarsi alla pari.
Dalle parole di Arrigo si evince come sia importante non immischiarsi in altre culture cercando di risolvere altrove problemi che non abbiamo risolto qui. È meglio ritornare a casa ripensando il modo di porci nell’immediato presente con il nostro vicino.
Con un machiavellico enigma propostoci da Emanuela riguardo a file di puntini da unire in modo insolito, ci troviamo ad affrontare le regole, prestabilite e condivise, che scandiscono la nostra vita entro certi confini. Riflettendo su questi limiti che diamo per scontati con le nostre premesse esplicite, culturali o personali, ci uniamo in gruppi parlando ognuno di un proprio momento in cui è riuscito ad andare oltre, a superare questi confini per trovare soluzioni o scoprire novità, riuscendo a fare quel passo in più decisivo e fondamentale. Da questa innocua e intrigante esercitazione si sono però svelate parecchie cose ai nostri occhi: il rispetto per chi non riesce o non vuole trovare una soluzione, l’accettazione di un’opinione altrui che abbia ragioni diverse, ma che vanno accettate senza tentativi di imporre le nostre, e infine la presa di coscienza che non è importante trovare la risposta, ma lo è il modo in cui la troviamo.
Come si ricollega tutto questo al discorso sulle ONG? L’interrogativo sorge spontaneo, e subito Emanuela chiarisce questo dubbio: per anni queste associazioni, nonostante fossero animate da filantropici scopi, hanno preteso di insegnare a popoli stranieri un nuovo modo di vivere portato dall’esterno, costringendoli a disimparare il proprio, andando ovunque a dire cosa fosse giusto per loro, seguendo il principio del «giusto per noi, quindi giusto per tutti», e dunque senza neanche sapere prima, come noi stessi abbiamo dimostrato nella nostra esercitazione, cosa volesse il nostro vicino e se fosse d’accordo o meno con noi.
Questo ci riporta al modo di pensare che abbiamo nei confronti delle altre culture e che necessita di un cambiamento: l’inutile «che cosa possiamo fare per voi?» deve diventare un personale e coscienzioso «che cosa possiamo fare noi per noi?» e «che cosa potremmo magari imparare noi da quei popoli che, con un termine tanto vile quanto offensivo, riteniamo sottosviluppati?».
Tutto questo però sarà irrealizzabile se penseremo sempre di avere davanti a noi uno che va aiutato, non uno che può aiutarci. Ascoltiamo Panikkar, che sottolinea che un concetto vale laddove viene concepito e non può essere universale in se stesso, e che un valore umano non lo è necessariamente per ogni essere umano, mettendoci bene in testa che lo sviluppo, come la pace, non è un concetto trasversale e una situazione esportabile ovunque. Accettiamo il processo di relativizzazione suggerito da Kalpana Das nel suo saggio (che risale al 1983 ma che Emanuela definisce, giustamente, attualissimo): ci sono tanti modi di vivere quante sono le culture; ognuna è un centro e va accolta nella sua totalità e apprezzata in ogni sua dimensione, anche nel differente modo di vivere e di concepire il mondo.
Il pomeriggio prosegue su questo filone in maniera decisa ma allo stesso tempo sconnessa: ci troviamo disorientati, facciamo domande e tentiamo risposte diverse (e per niente rassicuranti) da quelle abituali, cercando di vedere punti di vista opposti al nostro e movendoci «sulle uova», ovvero in un mondo a noi sconosciuto.
Emanuela non tenta di riportarci sulle convinzioni precedenti, ma anzi ci sfida a vedere il Sud del mondo come una risorsa (non economica) che ci aiuta a ripensare e a ripensarci, come una stella polare che ci indica una nuova direzione, come un invito a ribaltare gli schemi, mettendo in conto una reciprocità, uno scambio e una circolarità che ci porteranno a un percorso tortuoso che necessiterà di tempo, attenzione, grazia, aiutandoci a raggiungere nuove mete da cui non torneremo mai come siamo partiti: in poche parole, come dirà anche Arrigo più tardi facendo l’esempio del Vietnam, un Dialogo. Ma per renderlo possibile esso deve svolgersi sullo stesso livello; sarà quindi necessario accettare premesse diverse dalle nostre mettendo in crisi la nostra idea di mondo, di sviluppo, e cercare di cambiare imparando ad ascoltare oltre che a comandare.
Nel finale Emanuela ci saluta con un brano sui ponti tratto da «Racconti di Bosnia» di Andric e noi, disorientati prima dalle sue anticonformistiche provocazioni e poi da un meraviglioso tramonto, ci lasciamo finalmente disposti a imparare e non a insegnare, con una mano tesa piena di fiducia e possibilità verso l’altra sponda di un immaginario ponte del dialogo diviso e interrotto, convinti che queste diversità possano tornare ad essere una cosa sola.