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Venerdì 19 maggio 2017 ore 20.45
presso il Centro Natura - Sala del camino

via degli Albari 4/a - Bologna

 

collana InterCulture
già rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal

presentazione del volume:

Vie di pace
 
intervengono:
Arrigo Chieregatti
direttore della collana

Antonio Genovese
pedagogista
 
Pace è consuetudine e scambio di vita fra gli uomini:
dalla famiglia al clan, al popolo, alla moltitudine delle genti.
Un cammino faticoso, perché l'uomo trova difficile
non mettersi al primo posto
considerando gli altri come vassalli.
Molte sono le vie della pace.
Questo volume ne esplora alcune.

 
scarica il programma dettagliato
 
Indicazioni bibliografiche al n. 13 PDF Stampa E-mail
a cura dell’IIM

  • Stephen A. Marglin, The Dismal Science. How Thinking Like An Economist Undermines Community, Harvard University Press, Cambridge 2008. («La scienza funesta. In che modo una mentalità da economisti distrugge la comunità»).1
Gli economisti esaltano il mercato come strumento di regolazione dell’interazione fra gli uomini, senza riconoscere che il loro entusiasmo dipende da un insieme di mezze verità. Si dà per scontato che gli individui siano autonomi, guidati dall’interesse personale e razionalmente calcolatori, che i loro desideri siano illimitati e che la sola comunità che conta sia lo Stato-Nazione. Tuttavia, come argomenta Stephen Marglin, le relazioni monetizzate erodono la dimensione comunitaria. In passato, ad esempio, quando una calamità colpiva una famiglia contadina, i vicini venivano in suo aiuto. Se era bruciato il granaio, aiutavano a ricostruirlo. Oggi un contadino a cui brucia il granaio non si rivolge ai vicini, ma a una compagnia di assicurazione. In questo caso l’assicurazione può essere uno strumento più efficace di un intervento della comunità, ma il passaggio dalla reciprocità alle relazioni di mercato indebolisce i profondi legami sociali e umani che sono costitutivi di una comunità.
Marglin analizza i modi in cui i presupposti di fondo dell’economia giustificano un mondo nel quale gli individui sono isolati gli uni dagli altri e le connessioni sociali risultano impoverite nella misura in cui le persone si definiscono in base a ciò che possono permettersi di consumare. Negli ultimi quattro secoli, l’ideologia economica è diventata l’ideologia dominante in gran parte del mondo. Marglin narra come ciò è avvenuto e indica alcune vie che potremmo percorrere per ritrovare nella nostra vita l’equilibrio che quell’ideologia ha dissestato.

  • Christoph Eberhard (a cura di), Traduire nos responsabilités planétaires. Recomposer nos paysages juridiques. Une introduction, Bruylant, Bruxelles 2008. («Tradurre le nostre responsabilità planetarie. Ricomporre il nostro panorama giuridico. Un’introduzione»).
Il pilastro economico: responsabilità sociale delle imprese e commercio equo2
Parallelamente ai fenomeni di responsabilizzazione sociale delle imprese, da alcuni anni si assiste a una rapida espansione delle pratiche di commercio equo. Pur essendo iniziato negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, il commercio equo è rimasto una nicchia alternativa finché non ha fatto il suo ingresso nei supermercati attraverso la creazione del marchio Max Havelaar alla fine degli anni ’80. Due dei contributi pubblicati in questo libro (quello di Virginie Diaz Pedregal e Nil Ozcaglar Toulouse e quello di Walid Abdelgawad) analizzano l’importanza ma anche i «pericoli» di questo successo. Ogni istituzionalizzazione è infatti una spada a doppio taglio: permette da un lato di legittimare una pratica alternativa all’interno di un sistema dominante, ma dall’altro richiede aggiustamenti che contribuiscono a diluire la logica originaria, trasformandola e integrandola nel sistema. Forse l’orizzonte di una democrazia veramente partecipativa, sensibile a un approccio dialogale come quello invocato dalle analisi contenute nella prima parte del volume, potrebbe favorire l’emergere di progetti collettivi in cui l’«istituzionalizzazione» non sia più in contrasto con l’«approccio alternativo». Secondo Pedregal e Toulouse,
(...) il commercio equo produce un’estensione del politico nell’insieme della sfera sociale. A forza di pressioni, rivendicazioni e richieste, è anche sinonimo di proposta, costruzione e dialogo. Per quanto riguarda l’istituzionalizzazione politica e sociale, dall’analisi risulta che gli attori del commercio equo, malgrado la volontà di non farsi assorbire e la diffidenza nei confronti dello Stato, della pubblica amministrazione e del diritto, non possono fare a meno di ricorrere allo Stato e al suo intervento. In questo senso si trovano a volte costretti a piegarsi alle esigenze del sistema istituzionale esistente. Il commercio equo infatti dipende ampiamente dalle istituzioni per il suo funzionamento, la sua legittimazione e la sua durata. Tuttavia, se è legittimata dalle istituzioni esistenti, un’iniziativa di sviluppo economico e sociale come il commercio equo permette a sua volta una loro legittimazione: il meccanismo è radicalmente duplice. Le relazioni sono segnate dalla solidarietà e dall’interdipendenza e senza dubbio non sono prive di ambiguità e di tensioni. Il commercio equo si colloca dunque là dove si articolano il diritto e la responsabilità, a livello planetario. L’etica commerciale nella sua interezza non può essere contenuta nelle leggi umane, che sono necessariamente limitate, incomplete e generali. Di conseguenza la dirittura morale dei soggetti coinvolti non può limitarsi a un commercio che, sotto certi aspetti, è semplicemente «più giusto» del commercio convenzionale.
L’analisi di Walid Abdelgawad propone la seguente diagnosi: per affrontare il fenomeno di questo commercio e del suo diritto «alternativo», è necessario prendere sul serio le analisi in termini di pluralismo giuridico (e quindi aprirsi a sensibilità che articolano «diritto e società»); tuttavia l’autore insiste anche sulla combinazione di ordine negoziato e ordine imposto e afferma che, per contribuire a una vera trasformazione dell’assetto giuridico del commercio internazionale attualmente in vigore, è necessario superare il semplice fatto di essere «alternativi». In primo luogo si dovrà puntare a un nuovo orizzonte etico, ma già traducendolo in varie procedure di istituzionalizzazione e procedendo non dall’alto (top down), ma dal basso (bottom up), cioè a partire non unicamente dal sistema dominante, ma dai movimenti sociali della società civile. Dice Walid Abdelgawad:
A una regolamentazione imposta dall’alto dagli Stati e dalle imprese multinazionali attraverso le organizzazioni internazionali (come gli accordi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio) e alle norme elaborate dal mondo degli affari (etica degli affari, Lex Mercatoria) per difendere gli interessi di una minoranza degli attori del commercio internazionale, si contrappone una regolamentazione «dal basso», alla cui formulazione partecipino in maniera democratica i produttori del Sud. Intendiamo con questo una regolamentazione che assuma come punto di partenza la dimensione locale dello sviluppo, che include i bisogni e le aspirazioni delle comunità locali (contadini emarginati, piccoli agricoltori, popoli indigeni ecc.), per definire di conseguenza, a livello internazionale, i termini dello scambio più adeguati per loro. Questi gruppi sociali e queste comunità sono in grado meglio di ogni altro di definire le proprie rivendicazioni; costituiscono dunque una forza collettiva che li rende protagonisti della regolamentazione giuridica. In tal modo i «dimenticati» dal diritto del commercio internazionale potranno (speriamo!) far sentire la loro voce. (...) La costruzione di un diritto alternativo presuppone l’idea di una rottura con il modello di diritto che attualmente regola il commercio internazionale. Questa rottura si realizza attraverso la creazione dei circuiti normativi quasi chiusi in cui si muovono le organizzazioni del Nord e quelle dei produttori del Sud (contratti, criteri, codici di condotta), mantenendosi per quanto è possibile indipendenti dal diritto del mondo degli affari e delle organizzazioni internazionali. Tuttavia questa rottura oggi non è totale, ma piuttosto relativa. Per quanto riguarda la trasformazione del modello esistente, possiamo dire che si realizza sia attraverso operazioni di lobbying che attraverso la sensibilizzazione e l’educazione dell’opinione pubblica. (...) Per l’attuazione di questo progetto non si dovrebbe ridurre l’ambito del commercio equo ai soli rapporti di scambio Nord-Sud; sarebbe infatti necessaria una trasformazione globale dell’insieme delle regole giuridiche del commercio internazionale in vista di una migliore assunzione del principio del commercio equo qualunque sia la collocazione geografica dei produttori. Le organizzazioni del commercio equo inserite nella filiera integrata sostengono apertamente la necessità di estendere il commercio equo ad ogni tipo di scambio, comprese le relazioni «Nord-Nord» e «Sud-Sud». Questo approccio globale (peraltro ignorato dalla regolamentazione statale del commercio equo nel diritto francese) non è del tutto idealistico, anzi, sta diventando sempre più significativo nella misura in cui la prassi più recente degli attori della filiera integrata sembra avviare un’evoluzione in questo senso.

Prospettiva interculturale
Al di là della sfida che rappresentano per il nostro «pensiero giuridico», sia la responsabilità sociale delle imprese che la dinamica del commercio equo puntano a un reinserimento della sfera economica in quella sociale e ambientale, in vista di un agire collettivo globalmente responsabile e non dominato dall’economia. Queste esperienze, e il nuovo orizzonte etico che anticipano, forse preannunciano un’emancipazione dalla «grande trasformazione» che Polanyi (1957) ha descritto e che ancora ci caratterizza. Se quella trasformazione consisteva nella «de-socializzazione» dell’economia, forse con questi movimenti si assiste alla sua ri-socializzazione e al suo reinserimento nell’ambiente. In tale contesto, è utile richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che, oltre ai movimenti alternativi «moderni» come quelli che stiamo analizzando, esistono molti esempi viventi di modelli «economico-sociali». Un compito dell’eterotopia che abbiamo presentato sopra dovrebbe essere il riconoscimento di queste pratiche, non solo perché non vengano meno, ma anche per imparare qualcosa da esse. Un esempio è quello della tontina, un’istituzione che è diffusa in molte società africane e che rispecchia una visione del mondo incentrata sulle nozioni di solidarietà e di interdipendenza. Sarebbe sbagliato ridurla a una semplice forma di microcredito, e sarebbe molto istruttivo prestare attenzione all’orizzonte etico che propone e ai meccanismi che mette in opera per tradurlo in pratica. Alain Henry, Guy-Honoré Tchente e Philippe Guillerme-Dieumeregarde (1991, pp. 16, 18, 19, 59, 60, 61, 68, 88) descrivono questa realtà nel contesto camerunese:
Evocando l’esistenza di attività non finanziarie, uno degli intervistati precisa che non bisogna parlare di altre attività «in quanto tali». È dunque impossibile dare una definizione che riduca la tontina a un unico aspetto. Le motivazioni sociali e quelle finanziarie sono indissociabili come le due facciate di un foglio di carta. Strumento di risparmio, sistema di credito, gruppo di amici che si incontrano per uno scambio di idee, occasione di ritrovo, rete di pressione sociale, luogo di condivisione delle gioie familiari, gruppo di sostegno per i momenti di difficoltà e in particolar modo di lutto... la tontina è tutto ciò nello stesso tempo. (...)
«Beh, c’è un contributo in denaro; forse, ma c’è anche un certo contributo di solidarietà, un certo aiuto; è evidente». Vedremo che un’analoga logica di moderazione presiede anche all’impiego dei crediti: si cerca di far fruttificare gli introiti piuttosto che di consumarli. Non è che un altro modo di far «lavorare» il denaro. In realtà, la tontina sarebbe sinonimo di investimento, e anche le attività sociali sono viste in questa prospettiva. Si tratta di capitalizzare relazioni quanto di risparmiare risorse finanziarie. In un succedersi senza fine di debiti e crediti, per ciascuno viene il momento di beneficiare del frutto delle proprie fatiche. «La tontina è un meccanismo di finanziamento, ma si può dire che è in primo luogo un meccanismo di finanziamento del lavoro. Vedi, oggi è il tuo tetto, la prossima volta è il mio... Tontine di tetti, tontine di campi, tontine di funerali. È dunque un meccanismo di crediti e di rimborsi, ma al di fuori del circuito finanziario. Le cose vanno un po’ in questo modo: io faccio visita a te, e tu devi restituirmi la visita. È un meccanismo di crediti e debiti con un principio di rotazione interna. Finché non l’hai restituita, sei debitore di una visita. Questo non ha nulla a che vedere col denaro nella sua forma originaria».
La tontina è uno strumento per vedersi spesso e conoscersi meglio. A volte si fa «ruotare» la tontina, cioè ci si raduna a turno presso ciascuno dei partecipanti: «Questo permette di conoscersi meglio». Si delinea così una logica inoppugnabile: per risparmiare insieme, è necessaria la fiducia reciproca; di conseguenza bisogna conoscersi, e quindi incontrarsi regolarmente; il modo più semplice per realizzare tutto ciò... è fare una tontina. Dal momento che la prudenza, qui, è un principio sociale basilare, nel quadro delle tontine si costruisce, settimana dopo settimana, la fiducia che si può reciprocamente concedersi. Alcuni dei nostri interlocutori tendono a ritenere che l’aspetto relazionale sia subordinato all’obiettivo finanziario, ma sono ancora in molti a dichiarare che l’aspetto finanziario, come nelle tontine di una volta, è soltanto un incentivo a incontrarsi. (...)
Torniamo allora per un momento alla scuola della letteratura orale tradizionale. Sono evidentemente numerosi i racconti che fanno vedere come i veri amici si riconoscano nei momenti difficili. Nel linguaggio dei proverbi, questo si traduce nel modo seguente: «Se ti sei rallegrato con qualcuno nel giorno della buona sorte, porta con lui il lutto nel giorno della sventura». Ma qui, forse più che altrove, la vera amicizia deve dimostrarsi tale quando le cose vanno bene come quando vanno male. Nei momenti buoni, i cattivi amici possono ugualmente venir meno. (...) È dunque necessario che la tontina prescriva il dovere di condividere sia le gioie che le sventure. Secondo un affiliato, «questa è una delle basi della tontina». Tali circostanze sono l’occasione per verificare l’affidabilità dei propri amici. (...) La tontina è una delle porte d’ingresso nella società, uno dei luoghi dove nasce lo scambio sociale. È la prima forma di socializzazione. (...)
In altri termini, i beni materiali sono desiderabili soltanto nella misura in cui si inseriscono in una relazione umana. Come dice un proverbio, «il denaro è buono, ma l’uomo è migliore perché risponde quando lo si chiama». È la classica insistenza delle tradizioni africane sul primato che è opportuno dare alle relazioni sociali. La qualità di questi legami deve essere la preoccupazione sociale di tutti. (...)
Chi aspira a entrare nella tontina è fatto oggetto di una diffidenza estrema, ma una volta che si è stati accettati e dopo un periodo di osservazione si beneficia di una forte protezione da parte dei nuovi amici. «Quando si accetta una persona, la si sostiene». (...) Sono molte le forme di intervento o di sostegno a favore dei membri della tontina. Si tratta di un dovere naturale, e tutti sanno che ne deriva anche un notevole vantaggio. Il principio è ancora più necessario perché si sa che il comportamento di una persona può essere garantito soltanto da quelli che la conoscono. Nel momento in cui la vita ti mette di fronte a qualche difficoltà, devi poter contare sull’aiuto dei tuoi amici. Essi dovranno intervenire a tuo favore per vincere la diffidenza di quelli a cui ti trovi contrapposto. Senza questa mediazione non avrai strumenti per farli venire a patti con te: bisogna «avere una pressione, cioè una relazione personale», ci hanno detto. (...) Questa funzione di intermediazione sociale è uno dei motivi che spingono a entrare in una tontina. (...)
La cultura di questo ambiente ci insegna che non c’è valore più prezioso e più esigente della fiducia. La tontina è uno dei suoi luoghi privilegiati. È uno spazio in cui si può affidarsi in tutta tranquillità allo sguardo degli altri. È la cellula in cui si costruisce la logica dell’amicizia che è tipica di questa società africana. I nomi di alcune associazioni richiamano esplicitamente tale principio (ad esempio: «gli amici dell’ultimo sabato del mese»). La tontina è per eccellenza la matrice di una «società degli amici». Luogo di nascita della fiducia, prima forma di socializzazione, istanza di una giustizia equa, scuola di formazione a una società di amici, condensato delle logiche di una cultura, la tontina è l’emblema delle libertà specifiche della società a cui appartiene.
È necessaria per vivere quanto lo è il cibo, e si rischierebbe di non sopravvivere alla sua ipotetica scomparsa. Agli occhi dei suoi affiliati, è nata all’alba dell’umanità. Per questo possiamo pensare che sarebbero tutti d’accordo sul punto di vista espresso da uno di loro: «La conclusione è che la tontina non può morire perché è il prodotto della società, perché traduce un certo modo di vivere».

Riferimenti bibliografici
  • Henry A., Tchente G.-H. e Guillerme-Dieumeregarde Ph., Tontines et banques au Cameroun: les principes de la Société des amis, Karthala, Paris 1991.
  • Polanyi K., The Great Transformation. The political and economic origins of our time, Beacon Press, Boston 1957, trad. it. La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974.

Note
1. Quella che segue è la traduzione italiana della presentazione pubblicata in inglese sul retro di copertina del libro.
2. Estratto ricavato con l’approvazione dell’autore da una versione precedente dell’introduzione del libro.