Menu Content/Inhalt
Home arrow Istituto Interculturale di Montréal arrow Notizie arrow Spiritualità e intercultura

In evidenza

 
Venerdì 19 maggio 2017 ore 20.45
presso il Centro Natura - Sala del camino

via degli Albari 4/a - Bologna

 

collana InterCulture
già rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal

presentazione del volume:

Vie di pace
 
intervengono:
Arrigo Chieregatti
direttore della collana

Antonio Genovese
pedagogista
 
Pace è consuetudine e scambio di vita fra gli uomini:
dalla famiglia al clan, al popolo, alla moltitudine delle genti.
Un cammino faticoso, perché l'uomo trova difficile
non mettersi al primo posto
considerando gli altri come vassalli.
Molte sono le vie della pace.
Questo volume ne esplora alcune.

 
scarica il programma dettagliato
 
Spiritualità e intercultura PDF Stampa E-mail
relazione alla conferenza internazionale
«Mistica, pienezza di vita»1

Kalpana Das2

Vorrei condividere con voi le mie idee sulla spiritualità dell’intercultura così come ne ho fatto esperienza nel corso della mia vita e del mio impegno di lavoro nel campo dello studio e dell’azione interculturale. La mia relazione si articolerà in cinque punti:
  • una meditazione sull’interculturalità;
  • l’interculturalità come processo di trasformazione che comincia con la persona e si estende alla società nel suo insieme;
  • la prassi interculturale dell’Istituto Interculturale di Montréal;
  • il metodo di lavoro dell’Istituto: un’interculturalità dialogica;
  • un messaggio di Robert Vachon.

1. Meditazione sull’interculturalità
Comincerò con due citazioni, una di Rabindranath Tagore, poeta-filosofo del Bengala (India), e una di Raimon Panikkar, filosofo, teologo e uomo di scienza, di origine catalana e indiana. Egli è stato ispiratore, guida e maestro per molti di noi qui presenti, e ha creato fra noi vincoli di amicizia e di fratellanza.
Rabindranath Tagore:
Mi hai fatto conoscere ad amici che non conoscevo.
Mi hai fatto sedere in case che non erano la mia. Mi hai portato vicino il lontano e reso l’estraneo un fratello.
In fondo al cuore mi sento a disagio quando abbandono l’abituale rifugio; scordo che il vecchio abita nel nuovo, e là Tu stesso hai dimora.
Attraverso la nascita e la morte, in questo oppure in altri mondi, ovunque mi conduci, sei Tu, lo stesso, unico compagno della mia vita senza fine, che unisci con legami di gioia il mio cuore a ciò che non è familiare.
Se conosco Te, nessuno mi sarà estraneo, non vi sarà porta chiusa, né legami. Oh, esaudisci la mia preghiera: ch’io non perda mai la carezza dell’uno nel gioco dei molti (Tagore, 1971, p. 109).
Raimon Panikkar:
La teologia interculturale implica la fede, nel suo senso più profondo, e la fiducia nell’altro; fede in noi stessi e fede in ciò che guida noi e tutto ciò che esiste. Soltanto quando il cuore è vuoto o puro non avrò paura di rischiare la mia fede, se necessario. (...) Lo spazio fra le culture è vuoto. Possiamo colmarlo nel momento in cui usciamo da noi stessi e incontriamo l’altro (Panikkar, 2005).
Vorrei fermarmi un attimo a meditare sull’interculturalità a partire da questi due brani di filosofi del nostro tempo appartenenti a due generazioni diverse.
Sia Tagore che Panikkar ci propongono un viaggio spirituale a livello di interculturalità, alimentato da un’aspirazione alla trascendenza e nello stesso tempo radicato nel concreto, nell’immanenza. Ci offrono un orizzonte, una meta verso cui camminare, come un’oasi che ci sollecita a continuare a camminare senza mai avere la sensazione di essere arrivati.
Tagore ci invita a scoprire l’«uno nel gioco dei molti», quel filo sottile della Vita che congiunge ogni esistenza, che collega tutti gli esseri nella molteplicità e nella diversità delle loro forme. Questa presa di coscienza può aiutarci ad andare al di là dei nostri ego personali e culturali e a trattare da amico chi è del tutto straniero senza aver paura di ciò che non conosciamo, celebrando l’estraneità e le differenze. La sfida, qui, è arrivare alla presa di coscienza (cioè all’esperienza) di quel filo sottile che tutti ci unisce, e quindi dell’interrelazione di tutte le cose nell’universo sulla base della non-dualità (né uno, né due).
Chi è impegnato in attività interculturali potrebbe tradurre affrettatamente tutto ciò in un «siamo tutti uguali», banalizzando le differenze come prive di importanza. Ma questo sarebbe un grossolano fraintendimento della visione dell’«uno e dei molti» a cui si riferisce Tagore.
Per Panikkar, la sfida dell’interculturalità consiste nell’aver «fede» in se stessi, negli altri e in ciò che guida tutto. Qui Panikkar parla di «fede» in termini di fiducia esistenziale più che di credenza rituale in qualcosa. L’interculturalità è l’impresa rischiosa di muoversi su un terreno non familiare, spesso carico di reciproco sospetto e anche di ostilità. Questa «fede» o fiducia è ciò che può prepararci ad assumere il rischio di andare verso l’alterità dell’altro. Parlando del modo in cui i tre direttori che si sono succeduti alla guida dell’Istituto Interculturale di Montréal hanno vissuto il pluralismo e l’interculturalità, Robert Vachon afferma, ispirandosi al pensiero di Panikkar:
Uno dei compiti più importanti del nostro tempo è quello di incorporare le esperienze radicalmente diverse delle persone e dei popoli in una coscienza pluralistica della condizione umana e della realtà (Vachon, 1998, p. 6).
Con linguaggi diversi, Tagore e Panikkar parlano entrambi della condizione fondamentale per l’incontro e il dialogo con il culturalmente altro: si tratta di una disposizione (un atteggiamento) esistenziale e personale verso lo straniero, il non familiare, l’altro. Per intraprendere l’avventura dell’interculturalità, bisogna fondamentalmente e innanzitutto radicarsi al livello dell’essere e dell’esperienza, che trovano espressione negli ambiti concreti della vita in società.
Il pluralismo e l’interculturalità si fondano sull’aver fede (fiducia esistenziale) nel Mistero della vita (la Realtà), che si manifesta in forme infinitamente diverse e nella loro interconnessione; si tratta di prendere coscienza dell’«uno nel gioco dei molti», di assumere una coscienza pluralistica delle esperienze umane. Questo è il punto di partenza e l’atteggiamento di base, e nello stesso tempo l’orizzonte che può guidarci nel cammino dell’azione e della vita interculturale nel mondo di oggi.
Potremmo parlare di una interculturalità radicale che emerge non solo dall’«incontro-scontro» fra culture nel mondo contemporaneo, ma anche dalla Realtà stessa. Si tratta essenzialmente di un imperativo spirituale che ci chiede di essere attenti alle sfide della Realtà, e non solo di una costruzione umana messa in atto per dare una risposta ai conflitti socio-politici e alle crisi delle società e del mondo.
Alcune delle caratteristiche concrete della spiritualità di questa interculturalità radicale possono essere descritte nel modo seguente:
  • È una spiritualità emancipatrice o liberatrice, perché affranca le persone e le culture dal rischio della stagnazione e della chiusura nei rispettivi ego culturali: attraverso la scoperta di dimensioni umane inesplorate, apre la porta a possibilità di rinnovamento e di trasformazione. Come dice Panikkar, «le culture, come la Realtà, non sono statiche; sono in un processo di continua trasformazione. Il dialogo fra culture, così come il compito filosofico di cercare di prendere coscienza del proprio “mito”, di metterlo in discussione e di trasformarlo, e di cercare equivalenti omeomorfici nei diversi discorsi culturali, sono un processo attraverso cui ogni persona umana ed ogni cultura contribuiscono al destino dell’umanità e dell’universo, che è in gran parte nelle nostre mani. Si tratta della dignità e della responsabilità umana» (Panikkar, 2005).
  • È un processo di scoperta di sé (del sé personale e culturale). Senza un «altro», l’«io» non esiste. La scoperta di sé si fa attraverso la diversità dell’altro, non attraverso la sua similarità.
  • È anche la via per scoprire l’interrelazione di tutte le esistenze e delle tre dimensioni: cosmica, divina e umana.

2. L’interculturalità: un processo di trasformazione che si estende dalla persona alla società
Sono dell’opinione che la pace esterna (nella società e nel mondo) non si può raggiungere se manca la pace interiore. Mantenere la giustizia all’interno delle comunità e delle società è un compito impossibile senza un impegno personale per la giustizia. Analogamente è impossibile sviluppare un modo adeguato di essere e di vivere in una società pluralistica senza una trasformazione personale. Un processo interculturale esige dunque una trasformazione sinergica che comincia dalle persone e si estende alle comunità, alle società e alle loro istituzioni.
Fin qui, meditando sull’interculturalità con l’aiuto di Tagore e di Panikkar, abbiamo parlato della dimensione personale dell’interculturalità, che è fondamentalmente un viaggio spirituale che ci porta al di là del nostro io, correggendo i nostri comportamenti sociali perché siano liberi da pregiudizi e intolleranza. Ora vorrei prendere in considerazione le dimensioni psico-sociali e politiche dell’interculturalità. Senza impegno sociale, la spiritualità perde il suo significato e il suo dinamismo; l’attivismo sociale e politico rivolto al cambiamento della società, se non è ancorato in una solida base spirituale, si risolve molto spesso in azioni che non hanno un impatto significativo sulla vita della gente. L’esempio più lampante può essere quello delle missioni internazionali di pace che spendono milioni e miliardi per portare la pace con le armi.
Entrambe le visioni del pluralismo del mondo, elaborate da Tagore e da Panikkar nelle rispettive situazioni di tempo e di luogo, affermano l’esigenza di questo fondamento spirituale, pur mantenendosi ben radicate nelle realtà storiche, politiche e sociali.
Nel 1901, al momento dell’istituzione dell’università Visva-Bharati, Tagore scriveva:
L’incontro fra Oriente e Occidente è rimasto incompleto, perché le occasioni non sono mai state disinteressate. Le avventure politiche e commerciali portate avanti dalle razze occidentali (...), molto spesso con la forza e contro gli interessi e i desideri dei paesi interessati, hanno creato un’alienazione morale profondamente dannosa per entrambe le parti. I pericoli provocati da questa relazione innaturale sono stati a lungo sprezzantemente ignorati dagli Occidentali. Ma la cieca fiducia nella forza della loro apparente invincibilità li ha spesso fatti passare dal loro sogno di sicurezza a terribili sorprese storiche (Tagore, 1961).
La cosa più importante non è comunque la paura del pericolo o di una perdita da una parte o dall’altra:
La costante crescita della distanza fra i due emisferi, con la sua influenza demoralizzante sulle passioni più basse dell’uomo (orgoglio, cupidigia e ipocrisia da una parte, paura, diffidenza e servilismo dall’altra), minaccia un disastro spirituale su scala mondiale (Tagore, 1961).
Nel periodo della colonizzazione britannica, Tagore reagì a questo stato di cose affrontando il problema di una trasformazione del modo di pensare dei colonizzatori e dei colonizzati tramite la fondazione di due luoghi di apprendimento: Shantiniketan e Visva-Bharati. Il suo obiettivo era quello di creare uno spazio in cui menti giovani e fresche potessero essere orientate ad aspirare alla libera espressione di sé, alla reciproca rivelazione dell’uno all’altro e alla creazione di un legame di federazione e di unità. Tagore sosteneva che il problema non era di un paese o di una persona particolare, ma della «razza umana». Contro la dominazione e il colonialismo, Tagore fece sentire la sua voce in forma poetica, evocando la forza della presa di coscienza dell’«uno nel gioco dei molti». L’interculturalità, nel suo pensiero, consiste nel riconoscere tutte le differenze rimanendo consapevoli dell’unicità del tutto e sapendo che «la perfezione dell’unità non sta nell’uniformità, ma nell’armonia».
Nel discorso di apertura del primo Congresso di Filosofia interculturale, tenuto nel 1995 a Città del Messico, Raimon Panikkar ha parlato dell’interculturalità nei seguenti termini:
L’interculturalità è l’imperativo filosofico del nostro tempo. [Di fronte al pluralismo può esserci] una duplice tentazione: il monoculturalismo e il multiculturalismo. C’è un monoculturalismo sottile quanto ben intenzionato, che consiste nell’ammettere un’ampia gamma di diversità culturali, ma sullo sfondo di un denominatore comune [la modernità] (Panikkar, 1998, p. 110).3
Per esplicitare meglio il discorso, vorrei aggiungere che si sta parlando del sistema mondiale dello Stato-Nazione, con il pan-economicismo come ideologia e la tecnologia come strumento. Le relazioni e gli incontri fra le persone e le culture del mondo si inseriscono in questo sistema, che diventa il denominatore comune alla base del processo interculturale.
La seconda tentazione di cui parla Panikkar è il multiculturalismo. La sua opinione è che il multiculturalismo sia impossibile nel contesto attuale, perché propone una visione della realtà secondo cui l’uomo deve vivere la sua vita in un pluriculturalismo atomizzato e separato; ciò significa ipotizzare un’esistenza in cui le diverse culture sono separate e si rispettano a vicenda, ciascuna nel suo mondo, senza connessione reciproca. L’impossibilità deriva anche dal fatto che la cultura dominante della modernità (l’Occidente moderno) è penetrata in ogni area geo-culturale del mondo rivendicando la propria universalità e il proprio intrinseco valore salvifico nei confronti della sofferenza umana. Panikkar propone quindi l’interculturalità come la via di mezzo tra il monoculturalismo e il multiculturalismo:
[L’interculturalità] riconosce che il monoculturalismo è letale e il multiculturalismo impossibile. Il monoculturalismo asfissia le altre culture opprimendole. Il multiculturalismo ci conduce a una guerra di culture o ci condanna a un apartheid culturale che alla lunga diventa a sua volta soffocante (Panikkar, 1998, p. 113).
Panikkar sostiene che l’interculturalità è inerente all’essere umano, basandosi ancora una volta sulla fondamentale interconnessione di tutte le cose e affermando che la storia dell’umanità si è sviluppata attraverso una continua «fecondazione reciproca». Nella visione di Panikkar, una delle condizioni fondamentali dell’interculturalità è «riconoscere che non ci sono universali culturali, anche se ci sono invarianti umani». Panikkar afferma:
Il rispetto culturale esige che rispettiamo i modi di vivere su cui non siamo d’accordo, o anche quelli che consideriamo nocivi. Possiamo essere costretti ad arrivare fino a combattere certe culture, ma non possiamo innalzare la nostra al rango di paradigma universale per giudicare le altre (Panikkar, 1998, p. 108).
In questa parte della mia relazione ho cercato di far vedere che le visioni di Tagore e di Panikkar chiedono a noi, come persone, di avere profonde radici nella spiritualità mentre ci coinvolgiamo attivamente nei processi storici, sociali e politici del nostro tempo. La più grande sfida per coloro ai quali oggi è chiesto di impegnarsi in azioni per la pace e la trasformazione socio-economica e politica delle società è quella di prendere coscienza ed essere consapevoli del pluralismo radicale, da un lato, e dall’altro di decostruire il paradigma monoculturale della vita umana che è stato elaborato dall’Occidente moderno e che tutti, volenti o nolenti, condividiamo. Rendiamoci conto che siamo tutti ostaggi di questo sistema politico, economico (il mercato) e tecnocratico esteso su scala universale (globalizzato), e che siamo costretti a dialogare con le regole di questo sistema che provoca il genocidio culturale!

3. La prassi dell’Istituto Interculturale di Montréal
L’Istituto Interculturale di Montréal (che all’inizio si chiamava Centro Monchanin) è stato fondato nel 1963 da padre Jacques Langlais come luogo d’incontro per giovani e adulti di estrazione religiosa e culturale diversa. Era stato concepito nel contesto delle realtà storiche, socio-culturali, religiose e politiche del Québec di quegli anni. Le caratteristiche predominanti della situazione di allora erano: la contestazione della natura «oppressiva» della chiesa cattolica; le relazioni storicamente conflittuali tra popolazione francese e inglese; l’assoggettamento delle Nazioni autoctone; varie ondate di immigrazione dal cosiddetto «terzo mondo» o da paesi non europei.
In seguito l’Istituto si è trasformato a poco a poco in un’organizzazione finalizzata alla riflessione sui fondamenti del pluralismo e dell’interculturalità nelle società e nel mondo, con programmi concertati di educazione civica e sociale (incentrati sulle relazioni interculturali e il dialogo interreligioso) e corsi di formazione interculturale per operatori di base, per i dipendenti di varie istituzioni educative e dei servizi socio-sanitari, per le persone impegnate nella cooperazione internazionale e nella promozione dei diritti umani ecc.
L’Istituto pubblica la rivista InterCulture e dirige vari progetti di ricerca-azione sulla crescente diversità della popolazione. Offre inoltre servizi di biblioteca e di centro di documentazione specializzato su alcune tematiche (dialogo interreligioso, relazioni interculturali, interculturalità e sviluppo internazionale, popolazioni indigene e così via).
A partire dal 1990, l’Istituto si definisce come un «gruppo per alternative interculturali». Per prendere le distanze da quello che noi chiamiamo l’«interculturalismo dominante (mainstream)», che si è trincerato nel monoculturalismo del sistema statale moderno, preferiamo parlare della prassi dell’Istituto come di una interculturalità alternativa.
La visione di questo pluralismo e di questa interculturalità si ispira in maniera considerevole alla filosofia interculturale di Panikkar e alla filosofia della Visva-Bharati di Tagore, nella misura in cui gli insegnamenti di questi due grandi pensatori hanno influenzato a livello personale e intellettuale la riflessione e l’azione di Robert Vachon e della sottoscritta, ai quali è stato assegnato un ruolo direzionale a partire dal 1970. Le aspirazioni spirituali e l’impegno sociale sono i due pilastri su cui sono state costruite la visione e la prassi interculturale dell’Istituto.
Mi è impossibile limitarmi a una definizione razionale di questa interculturalità alternativa. Una prospettiva multidimensionale è più appropriata. Si tratta di una nozione filosofica, psicologica, socio-antropologica e politica. Possiamo elencare le seguenti caratteristiche della filosofia e della prassi interculturale dell’Istituto:
  • Le basi dell’interculturalità sono il riconoscimento e la consapevolezza della natura pluralistica della Realtà, del mondo e delle società.
  • Interculturalità significa cercare di comprendere la Realtà, il mondo e la condizione umana con le categorie di culture differenti.
  • Dal punto di vista psico-sociale, interculturalità significa interazione fra mondi culturali diversi in un gioco notevolmente complesso di interconnessione e distanza, ovvero in un dialogo e in una sfida a livello personale, comunitario e sociale, e al livello più profondo delle cosmovisioni.
  • L’interculturalità esige una radicale contestazione del paradigma che governa le relazioni fra i popoli del mondo (nel quadro dell’attuale sistema mondiale) in termini di contrapposizione Nord / Sud, società sviluppate / società in via di sviluppo.
  • L’interculturalità presuppone una reciprocità sulla base di uno statuto paritario dei partner che interagiscono, nonché la salvaguardia delle loro identità.
  • L’interculturalità è un processo complesso di interazione, a livello cognitivo, affettivo e spirituale, fra la propria identità culturale e la diversità culturale dell’altro.
  • L’interculturalità è una filosofia di azione sociale che difende le comunità umane dall’egemonia, dalla dominazione e dal genocidio. Promuove il diritto delle persone alla propria identità culturale e il senso di responsabilità nei confronti della diversità del mondo.
  • L’interculturalità è un metodo per comprendere le questioni sociali, economiche, politiche ed ecologiche del mondo contemporaneo e richiede una ricerca di alternative a partire dalla saggezza e dai saperi di culture differenti.
  • L’interculturalità è dialogo fra civiltà.

4. Il metodo di lavoro dell’Istituto: un’interculturalità dialogica
Negli ultimi decenni il fenomeno di una crescente immigrazione, in particolare da paesi non occidentali, ha posto i paesi occidentali di fronte alla sfida della diversità religiosa e culturale. Questi paesi si sono attivati per rispondere alla sfida. Ovviamente il loro approccio si inscrive nel quadro di un sistema statale razionalistico di governance e nel complesso economico-tecnocratico dell’ordine mondiale. In tale contesto, il pluralismo e la diversità diventano un problema di gestione sociale da parte dello Stato. Si parla quindi di «gestione della diversità», e questo diventa l’obiettivo del multiculturalismo (in Canada) e dell’interculturalismo (in Québec).
La filosofia e la prassi interculturale dell’Istituto si collocano innanzitutto sul piano dei reciproci influssi e della dinamica conviviale degli abitanti del Québec. Una delle nostre preoccupazioni è stata quella di rigenerare le basi comunitarie impegnandoci nel dialogo, con quella «coscienza pluralistica» che Panikkar propone. Non vogliamo astrarci dalla realtà del sistema monoculturale in cui viviamo o negare tale realtà; vogliamo invece accettare la sfida di un dialogo con la cultura dominante di questo sistema.
Senza entrare qui, per mancanza di tempo, in una riflessione approfondita sul metodo che Panikkar propone per il dialogo interculturale/interreligioso (molti dei suoi allievi e discepoli hanno lavorato e scritto sull’argomento), mi limiterò a citare alcuni dei temi e delle nozioni filosofiche chiave che ci hanno guidato nel nostro lavoro: l’ermeneutica del dialogo interreligioso, la metodologia interculturale, nozioni come quelle di equivalente omeomorfico e di dialogo dialogico, la ricerca di alternative alla cultura moderna e l’analisi critica della nozione di diritti umani come fondamento dell’ordine sociale in tutte le regioni del mondo.

5. Un messaggio di Robert Vachon
Concluderò questa relazione leggendo parte di una riflessione e di una testimonianza personale di Robert Vachon, che non ha potuto partecipare a questo incontro estremamente significativo per tutti noi:
«L’Istituto Interculturale di Montréal è un’organizzazione di ricerca e di azione sociale radicata nella realtà comunitaria o di base. Non ha vincoli di dipendenza nei confronti di nessuno Stato, religione o cultura. Ritiene che oggi la comprensione reciproca fra le culture del mondo sia necessaria per la sopravvivenza della specie umana. Crede inoltre che il pluralismo della verità e della realtà sia un mito che sta emergendo nel nostro tempo. Ritiene quindi che nessuna cultura, tradizione o religione possa, da sola, rispecchiare la situazione attuale del mondo. Di conseguenza:
  • Abbiamo bisogno in primo luogo di aprirci all’immanenza nascosta nelle nostre tradizioni, nelle loro radici più profonde.
  • Abbiamo bisogno in secondo luogo di aprirci alla trascendenza orizzontale delle altre culture, il che significa ascoltare le diverse esperienze umane senza sottovalutarne nessuna a causa di pregiudizi evoluzionistici e acritici. Ciò significa anche sostenere un aperto dialogo dialogico con qualsiasi cosa si profili al nostro orizzonte.
  • In terzo luogo, abbiamo bisogno di aprirci alla verticalità del mistero della realtà, un mistero di vita che non si può ridurre a noi o agli altri, all’immanenza o alla trascendenza, e che ci mantiene vigili, criticamente ricettivi e profondamente umani, dal momento che non abbiamo il controllo del destino dell’universo, né personalmente né collettivamente.

Riferimenti bibliografici
  • Panikkar R., «Hacia una teologia de la liberación intercultural e interreligiosa», in Tamayo J.J. e Fornet-Betancourt R. (a cura di), Interculturalidad, dialogo interreligioso y liberación, Verbo Divino, Estella 2005.
  • Panikkar R., «Religion, Philosophy and Culture», in InterCulture (ediz. canadese), n. 135, 1998, pp. 99-120 (versione francese: «Religion, philosophie et culture»).
  • Tagore R., Poesie, Gitanjali – Il Giardiniere (a cura di G. Mancuso), Newton Compton, Roma 1971.
  • Tagore R., Visva-Bharati and its Institutions (edizione riveduta da Ranajit Ray), Visva-Bharati, Shantiniketan 1961.
  • Vachon R., «L’IIM et sa revue: une alternative interculturelle et un interculturel alternatif», in InterCulture (ediz. canadese), n. 135, 1998, pp. 4-75 (versione inglese: «IIM and its Journal: an intercultural alternative and an alternative interculturalism»).
Note
  1. La conferenza internazionale «Mistica, pienezza di vita», organizzata come omaggio a Raimon Panikkar, si è tenuta a Venezia dal 5 al 7 maggio 2008. Hanno preso la parola più di quaranta relatori di varie parti del mondo, profondi conoscitori della riflessione filosofica di Panikkar sul dialogo interreligioso e sull’interculturalità. All’evento hanno partecipato più di duecento persone. Kalpana Das, direttrice generale dell’Istituto Interculturale di Montréal, è stata invitata a tenere una relazione nel contesto della tavola rotonda su «Misticismo e secolarità: natura, sessualità, scienza e intercultura», a cui hanno partecipato anche Roger Rapp (Stati Uniti / Spagna), Michiko Yusa (Giappone / Stati Uniti) e Jaime Agustí (Spagna). Pubblichiamo qui la traduzione italiana della sua relazione.
  2. Kalpana Das, originaria di Calcutta (India), è dal 1979 presidente direttrice generale dell’Istituto Interculturale di Montréal. Ha avviato in Québec diversi programmi di formazione interculturale, rivolti in particolare a insegnanti e operatori socio-sanitari. Nel 1992 ha fondato l’International Network for Cultural Alternatives to Development (Incad - Rete internazionale per le alternative culturali allo sviluppo). A partire dal 1995 ha diretto numerosi progetti di ricerca-azione (diversità culturale e azione comunitaria, giovani immigrati, salute mentale degli anziani nelle comunità di immigrati). È stata membro di molte commissioni governative sulle questioni della diversità culturale e delle relazioni interculturali. Viene spesso invitata come relatrice in Québec, in Canada e anche all’estero (USA, Catalogna, Francia, Italia).
  3. Il testo del discorso, con alcune variazioni, è stato pubblicato nell’edizione canadese della rivista InterCulture nel 1998.