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Venerdì 19 maggio 2017 ore 20.45
presso il Centro Natura - Sala del camino

via degli Albari 4/a - Bologna

 

collana InterCulture
già rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal

presentazione del volume:

Vie di pace
 
intervengono:
Arrigo Chieregatti
direttore della collana

Antonio Genovese
pedagogista
 
Pace è consuetudine e scambio di vita fra gli uomini:
dalla famiglia al clan, al popolo, alla moltitudine delle genti.
Un cammino faticoso, perché l'uomo trova difficile
non mettersi al primo posto
considerando gli altri come vassalli.
Molte sono le vie della pace.
Questo volume ne esplora alcune.

 
scarica il programma dettagliato
 
Ecologia ed ecosofia PDF Stampa E-mail

di Arrigo Chieregatti e Bruno Amoroso

editoriale da Gestire l’ambiente o abitare la Terra? Dall’ecologia all’ecosofia (Anno 5, n. 14 maggio-agosto 2009)

«Ogni anno, nei prossimi decenni, milioni di persone (molti milioni di  persone) potrebbero morire, con una progressione che porterebbe a un conteggio finale di centinaia di milioni di vittime entro il 2100».
    Questa dichiarazione, contenuta nel rapporto della Commissione Intergovernativa per i Cambiamenti Climatici dell’ONU (IPCC), è stata rilasciata nel marzo del 2007.
    Da quel momento nessuna misura significativa è stata presa. Da oltre 17 anni gli ambienti scientifici lanciano allarmi. Questi allarmi sono stati sommersi dalle campagne di disinformazione organizzate e pagate da chi ha interessi economici nel campo dei combustibili fossili.
    Al di là di quei pochi che vengono considerati e definiti «esaltati», si ha l’impressione che tutta l’umanità in generale non dia importanza al fatto che il mondo possa andare a fuoco o sprofondare sott’acqua: l’unica priorità è fare subito ricchezza e guadagno.
    La paura di una tragedia non fa retrocedere dalla passione per lo sviluppo a qualunque prezzo. La paura non ha mai cambiato il mondo, e neanche oggi sarà sufficiente a farci riflettere.
Il mito del progresso economico l’avrà vinta su tutte le motivazioni di pericolo e di possibile distruzione. Non crediamo opportuno ridimensionare e tanto meno fermare la nostra corsa pazza verso la ricchezza, la tecnologia e la crescita economica illimitata.
Abbiamo forse perduto il senso della realtà?
Quale senso del reale ha oggi l’umanità nel suo insieme?
Qual è la cultura dominante, a cui tutti in vario modo siamo asserviti?
In un recente congresso sulla scienza si è parlato degli aspetti positivi e degli aspetti negativi delle scoperte scientifiche, ma la maggioranza ha ritenuto giusto affermare che non è possibile fermare l’evoluzione della scienza, anche se è stato dichiarato che la quasi totalità della ricerca scientifica è attualmente sovvenzionata solamente se ha come scopo la potenza bellica o l’aumento della ricchezza materiale.
Quello che ci permetterà di riappropriarci del senso del reale, del senso dell’esistente, potrà essere la conoscenza del simbolismo della realtà stessa. I simboli sono gesti, parole, avvenimenti, come la nascita, la morte, la povertà, la malattia, le persecuzioni, l’esilio, il cibo, la terra, il sole, la luna, l’acqua… che contengono un messaggio da comprendere e da trasmettere.
Non sarà possibile nessun amore per il creato, per la natura, la terra, l’acqua, se tutte queste realtà non saranno vissute nel loro simbolismo, cioè come compagne della donna, dell’uomo e del divino nel cammino della vita. Attraverso il simbolo, tutte le realtà sono gesti, esperienze e messaggi che ci aiutano a percorrere la strada della vita. La strada della vita non può essere riconosciuta e tanto meno percorsa da soli, senza una reciproca condivisione del cibo che ci alimenta e ci sostiene.
Finché non vivremo l’acqua come l’elemento primario in cui tutti abbiamo trascorso i primi nove mesi di vita, la vedremo solamente come un elemento da soggiogare per avere energia o da sfruttare per lo scarico dei liquami delle nostre case e delle scorie delle nostre fabbriche.
Finché non vivremo il sale come elemento essenziale dell’acqua, e da essi non impareremo la convivenza tra parti liquide e parti solide, tra apertura (l’acqua) e chiusura (il sale), non impareremo mai ad unire il bianco e il nero, il materiale e lo spirituale, la parte maschile e la parte femminile della vita.
Molti ormai mettono in evidenza la crisi della modernità, e poiché siamo stati educati a ragionare in termini di specializzazione, ciascuno tende a sottolineare la crisi dell’ambito particolare in cui è diventato «esperto», oppure (che è la stessa cosa) ad esaltare come caposaldo dell’esperienza della modernità la propria esperienza come unica importante e come «regina» del sapere.
Gli economisti sottolineano la crisi dell’economia, ma nello stesso tempo pongono come fondamentale la salvaguardia dell’economia come asse portante della ripresa del progresso umano; gli artisti denunciano la crisi dell’arte, ma contemporaneamente propongono che solamente l’arte può salvare il mondo dalla fossa in cui è caduto; gli insegnanti denunciano il problema della scuola, ma non ammettono che possa esistere un’alternativa alla scuola stessa; gli educatori sentono il peso dell’educazione, in particolare dei giovani, ma non riconoscono l’esigenza di mettere in discussione la formula educativa che sinora è stata elaborata; gli ecologisti  accusano la nostra società di mancanza di rispetto dell’ambiente naturale, di mancanza di rispetto dell’ambiente animale, ma hanno (e abbiamo) la netta sensazione di combattere contro un gigante che è più forte e più potente di ogni nostra iniziativa; i politici e i magistrati denunciano il disprezzo delle regole, ma l’enorme quantità di regole e di leggi è proprio il motivo della non osservanza di esse.
Spesso l’impasse è imputata alla mancanza di sovvenzioni in denaro, di aiuto finanziario e di soccorsi materiali. Pochi mettono in rilievo che la nostra civiltà occidentale è in declino a causa dell’impoverimento del senso umano della vita. La crisi non è dell’una o dell’altra branca della scienza, di un aspetto o di un altro del sapere. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che siamo in una crisi culturale proprio a causa della specializzazione che ha mandato in frantumi il senso generale della vita umana: ognuno di noi controlla, cura, esalta il proprio frammento come se potesse essere la soluzione anche dei problemi degli altri.
Non si tratta di annullare la specializzazione, ma di sottolineare la necessità dell’apertura all’altro. Si tratta di realizzare confronti critici tra la moltitudine delle scienze, di riflettere sull’interpretazione dei simboli, dei testi, delle opere, dei linguaggi disseminati nelle differenti culture e nei differenti saperi.
È urgente rinunciare alle pretese di un proprio pensiero autosufficiente, trasparente a se stesso e padrone del senso della vita. Attraverso questa rinuncia potremo riappropriarci del nostro originario fondo esistenziale e del nostro sforzo di esistere.
Attraverso il movimento che va da sé all’altro, dalla propria ricerca alla ricerca dell’altro, dalla propria scienza alla scienza dell’altro, dal proprio frammento di verità al frammento di verità che l’altro possiede, prenderà vita un comportamento di rispetto e di dialogo tra diversi. E questo dialogo non prenderà le mosse dal nostro desiderio di insegnare all’altro, ma dal nostro bisogno di ricevere il parere, la ricerca e la cultura dell’altro.
È assolutamente fondamentale scoprire che “io sono” solamente se parto dall’alterità che mi precede. Solamente in questo modo è possibile superare i rischi del soggettivismo, dell’idealismo e del narcisismo a cui la nostra cultura ci ha condotti.
È l’interpretazione del simbolo che mi permette di svelare l’altro come diverso ma complementare, come aiuto nella scoperta e nella comprensione ontologica del sé.
Il simbolismo del cosmo, della natura, della vita e della morte, del mondo animale e del divino, è una via che rivela all’uomo e alla donna il mistero in cui tutti siamo immersi, un mistero da cui scaturisce la sofferenza di non capire tutto e contemporaneamente la gioia di avere ancora tante cose da scoprire.
Il simbolo e la realtà materiale sono le due sponde della strada che può condurci alla comprensione dell’esistenza e dell’esistente, del materiale e dello spirituale, dell’umano e del divino, dell’evidente e del misterioso. La psicologia può simbolicamente mostrare la nostra dipendenza dal passato, e la religione può altrettanto simbolicamente mostrare i segni del futuro, dell’imprevisto, di ciò che supera e trascende l’umano.
Per avere la sapienza del creato, per essere capaci di ecosofia è necessario misurarsi con le diverse scienze umane: la linguistica, lo strutturalismo, l’antropologia, la scienza della religione. Non si tratta di essere specialisti, ma di avere il senso umano della realtà, allo stesso modo in cui non è necessario essere astronomi per ammirare un cielo stellato, né essere specialisti in veterinaria per amare un animale, e neppure essere specialisti in botanica per ammirare i fiori.
È  necessario cogliere le differenze fra le diverse scienze, operando le opportune mediazioni e integrazioni, per imparare così a comprendere gli uomini e le donne nelle varie prospettive culturali e ad ammirare e rispettare la natura.
Aprendosi a tutto ciò che è «altro» nella natura, l’essere umano apre se stesso.  Uscendo da sé, approfondisce se stesso. Ascoltando il creato, ascolta se stesso. Proteggendo la vita dell’acqua e dell’aria, protegge se stesso. Difendendo l’animale inerme e solo, difende se stesso.
In questo modo il creato, la natura, il cosmo e anche il divino saranno scoperti come parte di noi, e a proteggere la natura, il creato o il divino non saranno leggi esterne, ma la consapevolezza che noi apparteniamo al tutto.
Una realtà senza la conoscenza del messaggio che nasconde, cioè senza la scoperta del messaggio simbolico di cui è portatrice, rischia di essere un inganno o un’illusione. È come un sogno di cui nessuno riesce a dare una interpretazione. L’umanità rischia di non avere nessuno che interpreti il significato di ciò che esiste, mentre «niente è senza senso». La preoccupazione di avere e di possedere forse ci ha fatto perdere il senso delle cose, ma senza questa conoscenza rischiamo di perdere il gusto del reale.
La parola «sapienza» viene dal latino sapere, che significa gustare, assaporare, avere il gusto di ciò che vedo, tocco, uso, mangio, bevo, incontro. Oggi invece ci siamo ridotti ad avvicinare il creato, il cosmo, l’umano e anche il divino secondo l’utilità che possono procurarci e non per il loro sapore e per il gusto che ne deriva.
L’uomo moderno ha perso la capacità di vivere il simbolismo della vita: immersi nell’utilitarismo, non abbiamo la possibilità di interpretare il reale.
Dobbiamo re-imparare a gustare e perciò a godere di ogni realtà attraverso il messaggio che in essa è contenuto. Anche le religioni dell’Occidente hanno sempre più allontanato il simbolo perché non ne conoscono più il significato, e tutto viene interpretato secondo la conoscenza intellettuale. «Il mondo occidentale ha davanti agli occhi simboli infranti» (Tillich), che di conseguenza  sono incomprensibili e per questo vengono rifiutati. L’unica «scienza» che ancora usa i simboli è la pubblicità, che però ha trasformato lo strumento nel fine che ad essa conviene: l’utilità del guadagno.
Il simbolo non è una convenzione, e il messaggio che vi si nasconde è espresso secondo la volontà e la cultura di colui o di coloro che lo interpretano. In questo modo il confronto fra le varie culture è di un’indescrivibile ricchezza proprio per la diversità di sapienza e di gusto del reale. Gli oggetti, gli eventi, i gesti sono contenitori, pronti ad essere riempiti di senso da ciascuna persona, da ciascuna società, secondo le dinamiche e secondo i valori che ognuno possiede. Per questo lo stesso oggetto è vissuto simbolicamente dalle varie culture in modo differente. L’acqua, il cerchio, l’albero, il fuoco, la montagna… hanno un senso particolare a seconda della cultura in cui sono vissuti; il dialogo  reciproco rende possibile una fecondazione, che fa crescere e dilata la dimensione del gusto (il sapore) della realtà della vita.
Attraverso la conoscenza del simbolo, noi scopriamo di non essere «tutto», di avere sempre a che fare con qualcosa che non dipende da noi, che ci sorpassa, che va al di là di noi, che ci trascende, come la natura, il cosmo, il passato, l’inconscio... Spesso tentiamo di creare un ponte tra ciò che siamo e ciò che non conosciamo, ma non sempre riusciamo a stabilire un legame con tutto: la sessualità, la nascita, la malattia, la morte, la pazzia… Alcune di queste cose sono maestose, alcune ci abbagliano, sono numinose, emozionanti, ma non tutto può essere ricondotto all’emozione.
Il simbolo tuttavia non è luogo di verità assoluta: per alcuni può essere rivelazione, per altri può rimanere indifferente, perché è una verità in-temporale, «tempiterna» (per usare un termine coniato da Panikkar). Noi che siamo figli della modernità occidentale, legati al mito della storia e quindi all’orizzonte dei fatti contingenti, abbiamo difficoltà a comprendere la dimensione del simbolo, perché abbiamo perso la capacità di relazionarci con la realtà senza pretendere di poterla esaurire.
Abbiamo bisogno di allargare il nostro orizzonte: solamente allora la nostra attenzione alla natura e al cosmo, come anche al divino, sarà di partecipazione, di compassione e non di semplice studio o di interesse. E questo modo di avvicinare la materia diventerà un cammino di saggezza, di sapienza, di ecosofia.

Questo numero di InterCulture propone due saggi che, sulla linea del filo rosso che ha animato la rivista dal suo sorgere, approfondiscono la riflessione sui temi del rapporto persone- natura in un’ottica interculturale.
L’approccio ai diversi punti di vista che qui viene proposto non è certo quello di un relativismo sciocco, radicato nella visione individualista e liberista della società borghese, ma è quello di una genuina relatività che sa riconoscere la diversità culturale che costituisce e anima l’esistente. Non si tratta di una eterogeneità  di forme eccentriche di espressionismo individualista, ma della diversità delle esperienze di vita e dei saperi elaborati dalle diverse comunità e culture del mondo.
Quando parliamo di intercultura, dobbiamo essere consapevoli delle varie declinazioni (religiosa, politica, istituzionale, educativa ecc.) di queste esperienze e di questi saperi, declinazioni che costituiscono nuclei rilevanti dai quali partire per stabilire il dialogo interculturale.
Dobbiamo inoltre andare al di là del semplice riconoscimento di una pluralità di culture e di visioni del mondo, aprendoci agli orizzonti di un autentico policentrismo (non a livello di individui isolati, ma di comunità umane) che riflette il policentrismo della natura e dell’insieme del creato (vivente e non).
I testi qui proposti, di Peter Raine e Leonardo Boff, ci aiutano a documentarci e a riflettere, in questa prospettiva, sul tema cruciale del rapporto tra persone e natura; i contributi di Adele Cozzi e Luigi Arnaboldi ci mettono a disposizione strumenti utili per poter continuare noi stessi questo percorso di riflessione.