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Venerdì 19 maggio 2017 ore 20.45
presso il Centro Natura - Sala del camino

via degli Albari 4/a - Bologna

 

collana InterCulture
già rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal

presentazione del volume:

Vie di pace
 
intervengono:
Arrigo Chieregatti
direttore della collana

Antonio Genovese
pedagogista
 
Pace è consuetudine e scambio di vita fra gli uomini:
dalla famiglia al clan, al popolo, alla moltitudine delle genti.
Un cammino faticoso, perché l'uomo trova difficile
non mettersi al primo posto
considerando gli altri come vassalli.
Molte sono le vie della pace.
Questo volume ne esplora alcune.

 
scarica il programma dettagliato
 
Intercultura e Interculture PDF Stampa E-mail

di Arrigo Chieregatti e Bruno Amoroso

Con questo numero di InterCulture vorremmo aprire una nuova stagione della rivista, pur sempre nella stessa linea di pensiero ed in stretto collegamento con la rivista canadese, che continua le sue edizioni in lingua inglese e francese, anche se solo in formato online. Questo è accompagnato da una riorganizzazione editoriale che rafforza il lavoro della re­dazione in più stretto collegamento con la nuova Casa Editrice Museodei, per offrire agli abbonati e ai lettori in generale un contatto migliore. Per questa ragione invitiamo i lettori ad accompagnarci in questo cammino segnalandoci proposte, disguidi, offerte di collaborazione anche a livello locale per alimentare il dibattito intorno ai temi della rivista. A questo stanno da tempo contribuendo i gruppi di studio, di approfondimento e di lettura già attivi in alcune città (Bologna, Milano, Lucca, Rapino), e ci auguriamo che altri seguano presto. L’arricchimento delle rubriche della rivista, con la segnalazione di iniziative, lettere dei lettori, commenti, intende facilitare questo processo di maggiore partecipazione.
Questo numero 18, con la pubblicazione degli atti del convegno su «Quale intercultura?» tenuto a Borgonuovo di Sasso Marconi dall’8 al 10 maggio 2009, apre un dialogo diretto fra le tante anime che hanno partecipato alla costituzione della rivista in Italia ed i contributi dei nostri amici della rivista di Montréal. Il convegno ha rappresentato il primo incontro «ufficiale» dei lettori di InterCulture. L’attività interculturale, che l’associazione Dialoghi fa da tempo in area bolognese, ha anticipato ed anche preparato il terreno perché fosse possibile stabilire un rapporto più intenso col gruppo di Montréal. Su questa iniziativa è confluita la rete del Gruppo di Lugano che circa vent’anni fa ha creato numerose occasioni di incontro e dialogo su questi temi. Vi hanno contribuito il Centro Studi Federico Caffè dell’Università di Roskilde in Danimarca, l’altrapagina di Achille Rossi a Città di Castello, Macondo di Giuseppe Stoppiglia a Bassano del Grappa, il Centro F. Braudel di Catania di Pietro Barcellona, e vari gruppi di ricercatori universitari (afferenti ad esempio alle Università della Calabria, di Bologna, di Messina). Quindi questo convegno ha rappresentato il punto di arrivo di tanti fiumi, di tanti piccoli rivoli che si incontrano oggi intorno all’idea dell’intercultura.
Parlare oggi di intercultura non è la stessa cosa che farlo quando noi affrontammo agli inizi questo dibattito. Dieci, quindici anni fa, la percezione diffusa del problema dell’intercultura era basata sul rapporto tra noi e loro: il problema nostro era quello di come far capire agli altri come eravamo e perché avevamo ragione, cioè come spiegare che la nostra cultura, la nostra democrazia, le nostre forme di vita avevano dei valori che andavano trasmessi agli altri gruppi che per varie ragioni si trovavano nel nostro paese o che noi incontravamo negli altri paesi. Nell’atteggia­men­to prevalente c’era l’idea che noi eravamo maggioranza, sia in quantità che in qualità di valori. Gli altri erano minoranza: quello che apportavano era interessante, ma andava elaborato, sviluppato nella «direzione giusta». In realtà questo rifletteva una situazione di fatto (ammesso che esistano i fatti obiettivi). Comunque le cose erano percepite così: noi eravamo i conquistatori, i vincitori, i potenti, e l’altro era quello che definivamo tradizionale, antico, residuale di un qualcosa che comunque andava scomparendo.
Oggi questa situazione è cambiata, non per merito nostro, ma perché il mondo cammina. Oggi il tema dell’intercultura si presenta attuale come allora, però il dibattito è decisamente cambiato: nella percezione diffusa in questo paese, ma anche in altri paesi europei, comincia a spuntare il sospetto (e qualcuno lo esplicita, ovviamente per drammatizzare) che gli «indigeni» siamo noi. Ormai c’è la percezione che il mondo sia grande, che esistano grandi paesi, grandi masse umane. Rispetto a questi l’Europa, per non parlare dell’Italia, appare come parte del tutto, ma tuttavia solo una parte. Quindi nasce la sensazione che siamo noi gli «indigeni» assediati da tutte queste persone, da tutte queste culture che si avvicinano a noi e vengono in casa nostra. Allora il problema di capire quello che sta succedendo, anche in termini di intercultura, si ripropone forse con più drammaticità, con più urgenza. Capire gli altri non è più una scelta etica: oggi dobbiamo farla per forza, anche di fronte a certe proposte sul tappeto, come quella di respingere o come quella di chiudersi, come ricorda Kalpana Das nel suo intervento; proposte che vanno da un’idea di protezionismo e di auto-difesa a quella di cercare di stabilire un dialogo. A questo incontro arriviamo impreparati. Per questo c’è una grande urgenza, oggi sentita più di prima. Vent’anni fa sembravamo dei predicatori di un mondo futuro possibile o dei rischi possibili; oggi il bisogno di intercultura e di dialogo trova indubbiamente rispondenza nei fatti. In questo contesto si colloca il convegno di InterCulture, a cui abbiamo voluto dare un taglio ben preciso.
La differenza tra un convegno ideologico ed un convegno esperienziale risiede nella sua meta e nella sua condivisione. Abbiamo voluto un convegno non ideologico, un convegno fondato sull’esperienza e capace di farsi esperienza vissuta. Volevamo che le esperienze fossero sentite come messaggi, importanti e determinanti per una nostra riflessione e anche, se necessario, in vista di un nostro cambiamento.
Abbiamo iniziato con un gesto che ci poteva unire tutti, anche se in maniera diversa e forse reciprocamente incompresa: il silenzio. È un mes­saggio a cui non siamo abituati. Non voleva essere un gesto disciplinare, ma l’esperienza di un dialogo iniziale in cui si utilizzano strumenti diversi da quelli della parola.  
Cosa significa fare esperienza lo abbiamo visto concretamente durante la cena inaugurale: Frédérique Apffel-Marglin ha chiesto e ha presentato una sua preghiera, una sua riflessione, un suo gesto. Questo è sperimentare l’inter­cul­turale. L’intercultura è almeno la capacità di accettare, di ascoltare, di guardare quello che un altro sta vivendo o sta facendo, anche se non lo comprendiamo, anche se non lo condividiamo.
Sul tavolo erano stati accesi due ceri. Abbiamo chiesto a Frédérique, che è di confessione giudaica, di spiegarci il significato simbolico che avevano per lei. Ecco le sue parole:

Nella tradizione giudaica a cui appartengo, stasera, dopo il tramonto, comincia lo Shabbat. All’inizio dello Shabbat, le donne hanno l’onore di accendere due candele bianche. Poi si fa una benedizione sul vino e sul pane, e li si condivide. Lo Shabbat è il settimo giorno, quando Dio si è riposato dopo aver creato il mondo. Secondo la tradizione mistica giudaica rinnovata che io seguo, si vive lo Shabbat come la nostra partecipazione con Dio per rinnovare il mondo.


Metodologicamente il convegno ha promosso vari gruppi di studio, perché siamo convinti che le grandi conferenze e le lezioni frontali possono essere utili, ma rischiano di non lasciare spazio al dialogo ed alla condivisione. Per questo la nostra proposta è di creare gruppi di studio, di approfondimento, di lettura.
Il convegno è stato strutturato nel modo seguente: ogni volta che ci si ritrovava, si ascoltavano due o tre relazioni di circa mezz’ora ciascuna. La cartella consegnata ai partecipanti conteneva i testi inviati in anticipo dai relatori, le traduzioni in italiano dei testi dei relatori stranieri e le traduzioni in francese e inglese dei testi italiani, in modo che tutti potessero seguire direttamente gli interventi. Dopo le relazioni, i partecipanti si dividevano in due o tre gruppi (all’interno dei quali si parlava la lingua del relatore, per evitare la difficoltà della traduzione, che avrebbe reso molto faticoso il dialogo). In questi gruppi si aveva la possibilità di un’e­spe­rienza di approfondimento delle proposte fatte dal relatore.
Il convegno è stato quindi un vero e proprio lavoro. Non si era lì soltanto per ascoltare, ma per lavorare insieme: i gruppi sono stati il perno dell’incontro. Questo ha consentito di realizzare un dialogo appassionato ed intenso tra le diverse percezioni dell’intercultura e le linee di pensiero che le sottintendono e ne ispirano le forme di intervento. Sono emerse differenti interpretazioni dell’interculturalità e anche diverse esperienze di incontro tra culture, che hanno aperto gli orizzonti di uno dei temi più scottanti del nostro tempo: la percezione e la pratica dell’intercultura nelle differenti culture. Il tema «Quale intercultura?» è un tema aperto, in un certo senso, anzi, nebuloso. Effettivamente l’intercultura in Italia è un tema molto confuso. Quando diciamo «intercultura», riteniamo che tutti pensino la stessa cosa. Probabilmente non è così. Gli autori dei contributi qui raccolti presentano la propria opinione e il proprio pensiero sull’in­ter­cultura­lità. Non sono sempre concordi, e questa è una ragione in più per imparare ad ascoltarsi, a non aggredire l’altro, a recepire le sue parole in un dialogo non dialettico ma dialogico (come direbbe Panikkar): un dialogo in cui l’altro parla perché ha il desiderio di contribuire a quello che ha sentito, non di convincere. Questo è molto difficile. Chi ha un’idea è convinto che sia, se non la migliore, certamente un’idea che merita di essere presa seriamente in considerazione. Per fare questo dialogo dialogico è necessario avere il coraggio di rinunciare alla propria idea, di fare un vuoto dentro di sé e di recepire il più possibile quello che l’altro sta dicendo. È quello che Panikkar chiama la smilitarizzazione delle culture. Siamo tutti dei combattenti: proviamo a non esserlo, almeno durante la lettura di questi testi.
Nel suo contributo qui pubblicato, Kalpana Das discute il problema che ritiene centrale nel nostro tempo: quello della diversità rispetto ai ten­tativi di assimilazione e omogeneizzazione portati avanti dalla globalizzazione mediante le sue politiche di liberalizzazione del mercato e le tecnologie informatiche e dei media. Rispetto a queste politiche, Kalpana Das propone un diverso approccio che ci aiuta a guardare alla diversità culturale dagli «spazi nei quali le persone vivono insieme e creano saperi e pratiche in tutti i campi delle attività umane, cioè gli spazi sociali vivi». A questo si aggiunge una seconda proposta di grande interesse: guardare il problema della diversità dal punto di vista delle società moderne e delle società non-moderne, con la consapevolezza che il non-moderno è fortemente presente nelle società del Nord anche se con ruolo periferico, mentre al contrario è la modernità ad essere periferica nelle società del Sud. Questi temi sono analizzati alla luce delle esperienze del Canada e dell’India. L’autrice conclude con un approfondimento delle tesi di Panikkar sulle caratteristiche del dialogo dialogico, auspicando un’«in­ter­cul­turalità dialogica» che non sia soltanto «un processo di soluzione dei conflitti», ma sia un autentico «processo di trasformazione».
Pietro Barcellona introduce un approccio critico e prudente verso i concetti – anche quelli di intercultura – e preferisce sostituire il loro uso con «un approccio comunicativo diverso, che faccia più leva sul racconto». Pietro Barcellona enfatizza il ruolo dell’esperienza nel processo di formazione dei saperi e la partecipazione emotiva come chiave di lettura interculturale.
Segue il contributo di Achille Rossi, che prende le mosse dalla retorica del «villaggio globale» per osservare che il problema delle differenze è esistito anche nel passato ed è stato affrontato in diversi modi, spesso senza che si riuscisse a sfuggire «alla tentazione del monismo o a quella del dualismo»: si può cercare di distruggere l’altro perché minaccia la nostra identità, oppure di distruggere la diversità assimilando l’altro dentro il nostro schema di organizzazione sociale e culturale. Lo sviluppo e l’u­ni­ver­salità sono concetti che esprimono la nostra cultura dell’assimila­zione. C’è infine un terza linea, approfondita e sostenuta da Achille Rossi, che è quella del dialogo dialogico richiamato anche da altri contributi.
Lomomba Emongo sviluppa un esercizio interculturale partendo dalla sua cultura africana ed introducendo la riflessione, derivata dalla saggezza bantu, secondo la quale «l’interculturalismo non è soltanto una cosa da fare, un progetto da realizzare, ma è innanzitutto una cosa che esiste e che dobbiamo scoprire».
Giuseppe Stoppiglia si concentra sui processi educativi e sull’edu­ca­zione interculturale, dando priorità agli aspetti del metodo e della didattica e ai rapporti interculturali nel territorio. Dalla sua analisi emerge la necessità di introdurre nell’educazione la cultura della connessione, con il conseguente passaggio «dalla connessione alla contaminazione, all’in­crocio, alla mescolanza, allo sconfinamento».  
Il complesso rapporto tra dialogo interreligioso e vita quotidiana in un contesto di crescente pluralità si colloca al centro dell’analisi presentata da Brunetto Salvarani. Dobbiamo raccogliere «la sfida a rendere le religioni un fattore di pace e di convivenza positiva nel contesto di una coscienza sempre più planetaria del nostro vivere sulla terra». L’autore sottolinea le modalità operative di un’educazione al dialogo (sia tra laici che tra religiosi), prende in esame le buone pratiche e si sofferma su tre model-
li oggi prevalenti nel condizionare i rapporti di accoglienza: lo scontro di civiltà, la posizione indifferentista-relativista e il dialogo accogliente.

Frédérique Apffel-Marglin, nello stile del racconto, presenta una sua particolare esperienza, che a molti potrebbe sembrare fuori dalla prospettiva razionale, ma che proprio per questo ci conduce verso una dimensione interculturale che va al di là del comune dialogo tra culture, prospettando una cultura che possiamo chiamare del futuro, radicata nelle culture «primitive» di tanti popoli, che potremmo definire culture «popolari», presenti anche nella nostra e tenute ai margini della vita dalla cultura ufficiale.

Adel Jabbar tenta di scoprire nelle varie culture il filo comune che le unisce, facendo quasi un’analisi storico-linguistica che tenta di avvicinare le culture attraverso la ricchezza che si sono reciprocamente scambiate nei lunghi periodi in cui si sono incontrate e hanno dialogato. Spesso le culture si sono reciprocamente «invase» attraverso il commercio, le guerre, l’arte, le emigrazioni e/o le fughe forzate dai propri paesi di origine. Adel Jabbar, che riprende a sua volta un’indicazione della filosofia panikkariana: «Le culture si incontrano per potersi reciprocamente fecondare», è un esempio vivente di questa fecondazione: di origine irachena, fuggito dal suo paese per motivi politici, vive da lunghi anni in Italia. Forse proprio per questo è pronto a rilevare le «mutue fecondazioni» che le culture in dialogo possono trasmettersi.

In conclusione, nel convegno sono venuti alla luce punti di vista spesso convergenti ma anche diversi, in un dialogo impegnato e appassionato intorno a temi centrali della nostra riflessione e della nostra vita quotidiana. Abbiamo voluto che questo numero della rivista rispecchiasse il carattere esperienziale del convegno stesso, dando spazio in qualche misura anche alla vivacità e alla ricchezza del dialogo che si è svolto nei gruppi fra partecipanti e relatori. Per questo abbiamo scelto di non elaborare sintesi dei lavori dei gruppi, ma di presentarne alcuni stralci con tutta l’immediatezza del linguaggio colloquiale e informale che li ha caratterizzati.
Nel convegno c’è stato molto più di quello che è raccolto in queste pagine, e ci scusiamo con quei partecipanti che non ritroveranno un’eco del proprio contributo: non si tratta di un’esclusione, ma piuttosto di un invito a continuare un dialogo che ha bisogno di tempi e spazi più ampi di quelli di un solo numero della rivista. Per questo diamo tanta importanza alla creazione di gruppi di approfondimento e rilanciamo l’apertura di uno «spazio dei lettori» per ascoltare la loro voce.