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Venerdì 19 maggio 2017 ore 20.45
presso il Centro Natura - Sala del camino

via degli Albari 4/a - Bologna

 

collana InterCulture
già rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal

presentazione del volume:

Vie di pace
 
intervengono:
Arrigo Chieregatti
direttore della collana

Antonio Genovese
pedagogista
 
Pace è consuetudine e scambio di vita fra gli uomini:
dalla famiglia al clan, al popolo, alla moltitudine delle genti.
Un cammino faticoso, perché l'uomo trova difficile
non mettersi al primo posto
considerando gli altri come vassalli.
Molte sono le vie della pace.
Questo volume ne esplora alcune.

 
scarica il programma dettagliato
 
Governance, globalizzazione e bene comune - Editoriale al n. 20 PDF Stampa E-mail


di Arrigo Chieregatti e Bruno Amoroso

Il termine governance, di cui si occupa questo numero di InterCulture, sintetizza un concetto espressione del piano di trasformazione delle istituzioni e delle società introdotto nel linguaggio e nell’agenda politica con l’affermarsi della globalizzazione.
Si tratta di un linguaggio e di un progetto la cui diffusione ha trovato eco soprattutto nei paesi e nei governi della Triade capitalistica (Giappone, Unione Europea e Stati Uniti) dove sta trovando applicazione pratica. Culturalmente si è diffuso in ambiti più vasti facendo così strada all’affermarsi del potere della globalizzazione in altri ambiti e territori, e questo grazie al controllo degli strumenti di informazione, di ricerca e diffusione scientifica nei paesi occidentali.
Come per molti altri casi precedenti - lo sviluppo, la crescita, ecc. -  il concetto di governance è stato presentato in veste neutrale, di razionalizzazione dell’esistente. Sarebbe quindi una forma di governo in una sua veste aggiornata, più moderna, e di maggiore efficienza, più corrispondente all’estendersi dei processi di internazionalizzazione e globalizzazione. In questa auto-attribuzione di valori e caratteri positivi se ne è assunto implicitamente il carattere di maggiore democraticità e partecipazione che questo consentirebbe, rispetto alle esistenti forme di governo delle comunità e degli Stati ritenute obsolete, burocratiche e inefficienti.
A questo fine l’uso ideologico del termine lo ha rivestito di aggettivi tecnici e apolitici come ‘buona governance’, ‘nuovi modelli di governance’, e ‘governance a più livelli’. Sforzi di qualificazione che non riescono ad oscurare la loro inconsistenza rispetto alle realtà, ai bisogni, agli obiettivi e alle domande espressi dalle società e comunità. Il successo ottenuto da questi tentativi di disinformazione è stato reso possibile per la diffusione data alle forme di autocritica e autoflagellazione dei sistemi di governo esistenti che hanno favorito non la loro riforma e trasformazione in senso democratico e popolare, ma l’abbandono tout court del governo e la sua sostituzione con una gestione segmentata e incompleta, gestita da gruppi tecnocratici e di potere estranei a questi paesi e comunità.
La governance, infatti, è funzionale agli interessi della Triade di segmentare i problemi delle comunità per prendere il controllo di quei settori strategici rivolti a garantire agli occidentali il libero accesso al controllo delle risorse mondiali, e ad impedire che forze nazionali e comunitarie che si oppongono a questo piano possano organizzarsi e riprendere il governo dei loro territori. Con la governance della Triade, i settori strategici sono affidati al controllo di agenzie sovranazionali o nazionali costituite da tecnici di sua fiducia, mentre le funzioni di governo che riguardano l’insieme dei bisogni e degli interessi delle comunità, regioni e Stati vengono delegittimate e abbandonate.
Questa transizione dal governo alla governance è stata promossa e attuata dall´Unione Europea che ha così confermato il suo processo di integrazione dentro le logiche neoliberiste della Globalizzazione.1
I contributi di questo numero di InterCulture e le osservazioni introduttive di questo editoriale tentano di approfondire ed analizzare le elaborazioni e l’impatto del fenomeno della governance, sia sulle percezioni e forme di pensiero, sia rispetto agli obiettivi delle regioni, Stati e progetti di cooperazione transnazionale.
Il primo gruppo di articoli - Governare il bene comune - contiene elaborazioni e riflessioni di autori italiani. Stefano Zamagni assume come punto di partenza i beni comuni e il problema del loro governo, che non può essere né pubblico né privato ma va affidato invece alle comunità, contrariamente ad ogni idea di governance, mediante l’introduzione di un nuovo tipo di impresa, l’impresa civile. Stefano Zamagni individua quattro parole - informazione, identità, incentivi e istituzioni - per far fronte ai problemi che questa scelta pone. Presupposti questi per la ricostruzione del legame sociale, condizione della rigenerazione e del risveglio delle comunità.
Riccardo Petrella, con la sua solita chiarezza e capacità di sintesi, indica nella ricostruzione di una comunità fondata sui beni comuni l’unica possibilità di una via d’uscita dalla disintegrazione dell’Europa. Quindi una proposta alternativa e opposta a quella della governance perseguita dall’Unione Europea e dalla globalizzazione, e l’unica coerente con i principi della cooperazione europea abbandonati a partire dal 1971 per il prevalere dei poteri forti legati al neo-totalitarismo capitalista.
Enzo Scandurra affronta il tema del bene comune dal punto di vista della città come cornice dell’habitat umano e comunitario. La sua tesi è che il bene comune, mediante i beni comuni, supera il livello delle contraddizioni politiche tra conservatori e riformisti e richiede il superamento del mito del progresso del Novecento e della sua logica riduzionista e meccanicista. Enzo Scandurra verifica queste tesi sulla città, sull’ambiente e sulle relazioni sociali di inclusione e di accoglienza che questa comporta. 
La seconda parte della rivista è dedicata alla governance analizzata e discussa da un punto di vista interculturale. Robert Vachon e Christoph Eberhard, nelle loro «riflessioni introduttive», sottolineano che la parola governance è diventata il punto di riferimento nelle discussioni sulla riorganizzazione della nostra convivenza, a livello sia globale che locale. La governance ha sostituito la centralità delle nozioni di ‘Stato di diritto’ e di ‘diritti dell’uomo’ dominanti fino agli anni ’90. Questa ricomposizione degli scenari giuridico-politici contemporanei attua la metamorfosi degli attori sociali che da semplici cittadini vengono ridefiniti come portatori di interessi, parti interessate o stakeholders dei progetti collettivi di società. Da rappresentativa, la democrazia diventerebbe partecipativa. I due autori affrontano il tema delle sfide dell’interculturalità alla governance, introducendo i possibili e diversi percorsi di analisi che questo pone e che emergono dalla lettura dei saggi che seguono.
Akuavi Adonon affronta il tema della governance come viene percepito presso i popoli indigeni del Messico. In questo contesto storico e culturale la governance è utilizzata come uno strumento di contestazione per affermare l’autonomia dei popoli indigeni verso il governo dello Stato. «In un contesto di rapporti fra Stato e minoranze etniche, la governance si trova in tal modo direttamente legata alla nozione di autonomia», afferma l’autrice. Avviene qui il paradosso che un fenomeno che è percepito in Europa come uno strumento di scissione e controllo della vita delle comunità diviene nel contesto messicano lo strumento di difesa della loro esistenza ed emancipazione. Il saggio indica nuovi concetti capaci di dare conto dei percorsi particolari della costruzione dello Stato-nazione in Messico, tra i quali il meticciato.
Étienne Le Roy, in Governare la neo-modernità africana, ritiene che «la polifonia che caratterizza l’introduzione del termine governance nei vari discorsi politici, ‘sviluppisti’, ecologici e scientifici illustri sia il fallimento delle forme moderne di regolazione delle società, sia l’incertezza delle prospettive delineate dagli svariati usi della terminologia». Il suo saggio approfondisce questo giudizio sulla realtà africana analizzando il rapporto tra neo-modernità africana e governance.
Robert Vachon e Christoph Eberhard approfondiscono nel saggio finale le «nozioni alternative alla governance» interrogandosi sugli effetti della trasposizione della governance in contesti non occidentali.

Educazione e resistenza al potere

Normalmente la governance viene usata in Occidente sul piano politico e socio-economico, che è fondamentale, ma pensiamo che sia necessario coinvolgere altre dimensioni della vita e della società nella responsabilità della gestione dell’autorità, toccando anche altri aspetti altrettanto importanti come l'educazione, la scuola, la vita familiare e la vita religiosa delle Chiese (che sono spesso ancora oggi gestite in modo autoritario, verticistico).
Sarebbe importante che riuscissimo ad avviare una prassi veramente democratica anche in questi aspetti della vita, affrancandoci da un’accettazione passiva e acritica di ciò che viene imposto dall’alto e che rischia di creare in tutti noi, laici o credenti, una mentalità omogenea agli interessi del potere.
A questo proposito ci sembra urgente una riflessione sulla scuola, e più in generale sulla dimensione educativa, fondamentale per la vita di ogni società. Quale ‘bene comune’ più grande della crescita umana delle donne e degli uomini di domani?
Sino agli anni precedenti al 1968 la scuola è stata considerata il luogo educativo per eccellenza, ma in quella stagione di cambiamento la scuola venne attaccata dall’interno in tutte le sue componenti: la protesta di studentesse e di studenti, insieme ai lavoratori, si indirizzò contro il potere, e il potere allora fu obbligato a pensare e ad occupare altri luoghi in cui abitare ed esercitare il suo dominio sui soggetti. Il progetto fu quello di rendere tutto ‘pedagogico’, tralasciando la scuola come luogo di conflitto.
Il potere di formare i giovani da quel momento cominciò ad uscire dalla scuola e a ‘descolarizzarsi’ (non certo nel senso in cui intendeva Ivan Illich), perché la scuola era diventata un luogo troppo insicuro per costruire soggetti funzionali al sistema. Così il potere cominciò ad occupare luoghi esterni all’istituzione scolastica. In questo modo il potere non ebbe più ‘luoghi’ definiti per operare (in fondo, sino a quel momento il professore universitario, il cosiddetto ‘barone’, era un riferimento ben chiaro per la contestazione).
Con l’arrivo della comunicazione di massa le cose cambiarono, e in Italia fu proprio Pier Paolo Pasolini tra i primi a identificare la televisione come nuovo e potente strumento pedagogico del potere. Altri se ne erano già accorti, come la scuola di Francoforte, ma in Italia è stato molto più difficile, perché anche la sinistra era stata presa nel vortice della conoscenza di massa.
Il potere pedagogico non fu più giocato nella scuola e nei luoghi di formazione, però il potere di formazione e di educazione divenne totale, cioè non più arginato dalle istituzioni che potevano garantire i diritti, compreso il diritto di essere contestate.
Il potere di formare e di educare si è smaterializzato, diventando in questo modo onnipotente.
Molto caparbiamente abbiamo contestato le multinazionali riguardo all’economia, ma forse non abbiamo fatto attenzione alla dimensione politica, sociale, pedagogica; fortunatamente sono stati i non-pedagogisti ad accorgersi per primi che il potere educativo era uscito dalle istituzioni scolastiche, anzi che le istituzioni scolastiche erano state coinvolte nel sistema e avevano accettato gli strumenti del nuovo potere diventando dipendenti da esso.
Le istituzioni scolastiche stesse si sono adattate al sistema, si sono organizzate alla maniera del nuovo potere di massa e sono diventate aziende di consumo del sapere e aziende di apprendimento delle tecniche: i dirigenti non hanno più compiti educativi, ma prevalentemente compiti manageriali e burocratici. L’impegno educativo è lasciato quasi esclusivamente agli insegnanti (se vogliono assumerselo); questi ultimi tuttavia devono rispondere al capo della ‘azienda’. I genitori erano già stati messi sotto silenzio dopo l’esperienza non troppo felice dei ‘Decreti delegati’.
Don Lorenzo Milani, a cui sono dedicate scuole statali e comunali, è stato un pedagogista fuori del coro, è stato un maestro completamente anomalo, creando una scuola con gli alunni che l’istituzione ufficiale aveva allontanato ed emarginato. Don Milani è giunto a contestare le istituzioni scrivendo un testo di resistenza al potere, L’obbedienza non è più una virtù, perché voleva indicare la necessità di educare la coscienza di ciascuno, pur con il supporto del giudizio del gruppo di appartenenza. Oggi i nostri alunni, e anche i genitori dei ragazzi delle nostre scuole, non sanno più a chi appartengono, e allora ognuno appartiene a se stesso e non vuole rendere conto a nessuno.
Tutta la ricerca pedagogica ha sempre indicato il corpo come fondamento dell’educazione, ma il nuovo potere di informazione-educazione di massa usa il corpo come strumento, il che non dovrebbe mai succedere. Il corpo è sempre stato e deve essere sempre un portatore di eros, di innamoramento, che è l’elemento fondamentale per la trasmissione del sapere.
Pier Paolo Pasolini scriveva: «Il corpo è il luogo del desiderio, per questo è necessario gettare il corpo nella lotta, e poi recuperarlo solamente alla fine della lotta, come strumento di conoscenza».
Il corpo non è solamente il corpo individuale, ma è anche il corpo dell’altro, è anche il luogo, la casa e la scuola in cui si vive. La scuola deve essere a dimensione dell’alunno, che deve sentirla come la propria casa, la casa dei suoi insegnanti, dei suoi amici e dei suoi genitori.
Ivan Illich diceva: «La scuola non deve assomigliare ad un ospedale, ad un carcere, ad una caserma o ad una chiesa. Questi luoghi sono fatti per coloro che hanno il potere (i medici, i carcerieri, i comandanti, i preti), mentre gli assistiti (gli ammalati, i carcerati, i soldati, i fedeli) restano praticamente reclusi in luoghi e orari ben determinati.
Non rischiano forse la stessa sorte le nostre scuole e i nostri alunni?
».
Da quel momento il ‘pedagogico’ è ormai diffuso in ogni luogo, soprattutto là dove non lo si aspetta. I dispositivi pedagogici ormai sono sparsi ovunque, in particolare nelle comunicazioni dei mass-media e nella pubblicità commerciale.
Pier Paolo Pasolini indicava in Scritti corsari un esempio che può essere indicativo:

«I jeans Jesus
hanno accanto uno slogan:
“Non avrai altri jeans al di fuori di me”
con accanto una foto di Toscani
e un paio di pantaloni jeans».

E Pasolini lo commentava così: «Ormai non esiste più niente di neutro, per cui è necessario esercitare la cultura del sospetto riguardo a tutto, cioè non c’è nulla che succede per caso; è necessario ricostruire la dinamica storica, e questo è possibile se si conosce bene l’oggetto specifico a cui ci riferiamo».
Si tratta non solo di fare attenzione agli oggetti e alle cose, ma alla relazione che si instaura con gli oggetti, da parte degli scolari come da parte degli adulti; bisogna fare attenzione alla relazione con le case, con i muri che abitiamo, con la terra che calpestiamo, con l’acqua che beviamo, con la strada che percorriamo, perché la conoscenza non è data solo dall’oggetto che si prende in considerazione, ma anche dalla relazione che ognuno instaura con l’oggetto di conoscenza.
Se la scuola è un luogo di conflitto, se la casa è un luogo di conflitto e di scontro, se la strada è un luogo da cui proteggersi, saranno il conflitto, lo scontro, il muro di difesa che verranno introiettati e conservati.
L’alunno nella scuola percepisce e impara quello con cui è entrato in relazione, tutto l’altro viene presto dimenticato: ciò che rimane è quello che è stato goduto grazie alla relazione. Qui è il motivo per cui un gruppo o una classe deve essere composto da un numero che permetta la relazione individuale da parte del maestro e tra gli scolari; se il numero degli allievi è troppo rilevante, l’apprendimento sarà solamente un apprendimento di massa. Il grande saggio dell’Oriente, Confucio, che è stato preso come indicazione anche da Mao-tze-tung per l’organizzazione del popolo cinese, diceva che il gruppo ideale dovrebbe essere al massimo di quindici persone.
In questa situazione si tratta di instaurare una pedagogia della resistenza per contrastare il potere.
Dobbiamo fare resistenza contro le idolatrie, e quindi smascherare tutto ciò che viene spacciato per eterno e rivelare la precarietà, la provvisorietà e la banalità di tutto ciò che si presenta come definitivo e per tutti.
Dobbiamo fare resistenza per sottrarre il corpo al dominio del potere politico, commerciale, religioso, sociale, culturale. È necessario liberare il proprio corpo da questo dominio e non permettere che nessuno si impossessi del nostro desiderio e lo determini. Il potere cercherà di appropriarsi del nostro corpo e dei nostri desideri: è necessario resistere sfuggendo al potere di chiunque voglia comandare.
Dobbiamo fare resistenza perché ogni rapporto pedagogico possa essere fondato sull’eros. Nel rapporto pedagogico è necessario tornare a praticare con lo sguardo innamorato, con lo sguardo corporeo, con lo sguardo fisico, e trasformare in affettività pedagogica ogni passionalità. Questo è possibile solamente ricuperando un tipo di rapporto che resiste, che è quello personale, frontale, fisico e corporeo.
Concludiamo con un’altra osservazione pedagogica di don Milani, anch’essa molto attuale al giorno d’oggi: «Nelle vostre scuole, dichiarava alla professoressa cui aveva scritto una lettera, ho l’impressione che il rapporto con i vostri alunni sia come il rapporto delle prostitute con i loro clienti o dei preti con i loro fedeli: quello che vale è il numero. Nelle vostre classi di venticinque alunni, se bocciate un ragazzo, l’anno dopo il numero della classe sarà sempre venticinque, e con fatica ricorderete il viso triste di quello che avete lasciato indietro».