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Venerdì 19 maggio 2017 ore 20.45
presso il Centro Natura - Sala del camino

via degli Albari 4/a - Bologna

 

collana InterCulture
già rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal

presentazione del volume:

Vie di pace
 
intervengono:
Arrigo Chieregatti
direttore della collana

Antonio Genovese
pedagogista
 
Pace è consuetudine e scambio di vita fra gli uomini:
dalla famiglia al clan, al popolo, alla moltitudine delle genti.
Un cammino faticoso, perché l'uomo trova difficile
non mettersi al primo posto
considerando gli altri come vassalli.
Molte sono le vie della pace.
Questo volume ne esplora alcune.

 
scarica il programma dettagliato
 
Quale crisi? - Editoriale al n. 22 PDF Stampa E-mail

di Arrigo Chieregatti e Bruno Amoroso

 Si parla ovunque di crisi, ma è quasi scontato che si parla quasi esclusivamente di crisi economica. Sembra non ci siano altre crisi che possono interessare, anzi, le altre crisi sembrano elucubrazioni di poeti, di mistici, di sognatori, di persone fuori dal reale.
Per risolvere la crisi in Italia, ma anche nel resto del mondo, infatti, sono stati scelti tecnici economici che devono dare la risposta e trovare la soluzione ai problemi economici e finanziari: così tutto tornerà nell’ordine di prima.
Per gli altri problemi - ambiente, energia, educazione, morale - basta affidare la soluzione ai ‘tavoli’ di esperti a cui affidare la governance di questi settori. Insomma, per l’economia come per il resto, osserverebbe Federico Caffè, «la toppa è peggio del buco».
Per chi non crede che tutto sia risolvibile a livello economico e finanziario, e che i problemi non siano di ordine tecnico o gestionale, vogliamo tentare di riprendere il discorso, partendo dai problemi e dalle situazioni che ci lasciano perplessi o contrariati, con l’aiuto di riflessioni e proposte che stimiamo importanti.

Riflessioni sulla crisi e il bene comune
La crisi si avverte anzitutto come malessere in ciascuno di noi, nasce dalla percezione d’insoddisfazione e smarrimento rispetto alle persone e alle cose a noi vicine, dalle cose non dette e dalle risposte non ricevute, a partire dalle persone a noi più vicine.
A ciascun problema cerchiamo di dare spiegazione in termini di incomprensione, di nuove promesse non mantenute, di problemi settoriali risolvibili con soluzioni pratiche. Ma i problemi ritornano, magari spuntano da un’altra parte, in un altro angolo del nostro vivere quotidiano.
«Questo è un tempo che separa e quando non separa confonde», scrive Johnny Dotti nel suo saggio che riproduce la premessa a un suo più ampio lavoro in corso di elaborazione sulle nostre società e l’idea di benessere che ci siamo fatti e dalla quale ci siamo fatti governare.
La separazione ci porta a sentire i problemi che abbiamo di fronte per segmenti - la questione antropologica, economica, sociologica, ambientale, politica, etica, ecc. - e questo ci porta a perderci dietro i singoli bisogni, interessi, discorsi e collettività che ci fanno perdere di vista l’insieme delle relazioni, il valore del dono, dell’amicizia e del vivere insieme, cioè di tutte le cose che fanno la comunità.
Tutto questo oggi è in crisi, e per questo, dice Dotti, ringraziamo la crisi se ci apre la porta al momento della rottura, del cambiamento e della scelta. Ma attenti anche alle manipolazioni della crisi, all’uso che se ne fa per sfruttare l’ansia che determina, per tornare a credere che «non può essere che così» oppure avvitarsi in dicotomie e separazioni - crescita o decrescita - imposteci per impedirci di ripensare liberamente le nostre esperienze e percorsi storici e di vita.
Partendo da queste premesse, Johnny Dotti approfondisce nel suo contributo il tema del superamento «della diaspora e delle polarità», mediante una ricomposizione di ciò che la modernità ha separato, e il tema del mito del welfare statale che non può essere valutato oggi per ciò che indubbiamente ha fatto ma per ciò che dovrà fare e per le «risposte inevase» che impongono il suo superamento per qualcosa di diverso e di meglio, dove gli interessi collettivi si coniughino dentro il bene comune, ricongiungendo le sue funzioni alla vita delle comunità e dei suoi sistemi produttivi.

Noi e il mondo: la crisi ambientale
Oltre alla crisi economica, che evidentemente non vogliamo negare né sottovalutare, non possiamo negare o sottovalutare la crisi del nostro rapporto con l’ambiente.
I cambiamenti climatici, che portano gelo e calore, siccità e alluvioni, sono ormai sotto gli occhi di tutti; i mezzi di comunicazione, sia pure con parsimonia, ci forniscono qualche dato sul degrado ambientale, sull’inquinamento e la morte di vasti tratti di mare, sull’estinzione delle specie, sulla perdita di biodiversità…
L’aspetto più grave di questa situazione sono le cause che ci hanno portato a questo: la perdita del rapporto di empatia tra noi e la natura che ci circonda; la scomparsa del dialogo culturale attraverso le abitudini, i miti, il simbolismo trasmessoci dai nostri predecessori, poeti e filosofi, che ci mette in relazione con tutto ciò che vive intorno a noi; la perdita delle forme di orientamento che la natura ci offre mediante il sole, la luna, i punti cardinali.
Abbiamo sostituito le nostre virtù umane di orientamento con le macchine, trasformando così la nostra abilità nello stare al mondo in una disabilità che ci rende ciechi senza il sostegno della tecnologia.
Passa invece sotto silenzio la preoccupazione di coloro che si pongono il problema in termini di ‘ecosofia’, cioè della relazione parentale degli esseri umani con tutti gli altri esseri e con tutta la realtà, nella consapevolezza che la sorte della sopravvivenza del genere umano è strettamente legata alla nostra volontà di riconoscerci un’unica cosa con la materia, abbandonando l’arroganza del potere, ritrovando il valore del limite e riscoprendo la ‘natura’ come compagna e maestra, e non più come materia inerte o schiava.
L’attenzione generale è rivolta specialmente all’esaurimento delle risorse energetiche, con la corsa spasmodica per trovare e inventare risorse alternative di qualunque tipo, purché permettano di mantenere intatto il meccanismo economico e il regime di vita a cui il mondo dei ‘ricchi’ si è abituato, e al quale non vogliamo assolutamente rinunciare.
Una corsa forse inutile, se è vero che le nuove praterie energetiche che si stanno aprendo nel Polo Artico e altrove smentiscono queste previsioni. Soprattutto inutile perché le scelte dei nostri modi di vita e dei nostri consumi energetici non devono essere affidate alla quantità di petrolio esistente e alle possibilità di guadagno di queste o di quelle industrie (petrolifere, eoliche, solari, biomasse, ecc.).
Per affrontare la situazione dobbiamo avere il coraggio di uscire da questa prigione dell’economia e della tecnologia, mosse dal profitto e non da scelte di vita, e smettere di credere che la soluzione del problema economico possa riportare la ‘serenità’ che abbiamo perduto.
Tutti i giorni viene ribadita la convinzione che la questione economico-finanziaria sia la base di ogni soluzione: su quel terreno troveremo una via d’uscita dal tunnel che abbiamo imboccato.
Si ha invece l’impressione che questa visione ‘economicistica’ sia un tranello, un inganno: il problema economico nasconde altri problemi ben più gravi, che neppure intravediamo, perché tutta l’attenzione è proiettata verso l’economia, e gli altri problemi non ci è concesso neppure di riconoscerli.
Non ci troviamo in un tunnel che dobbiamo cercare di attraversare il più rapidamente possibile, ma stiamo invece precipitando in un pozzo senza fine al termine del quale c’è il fuoco della terra e dal quale dobbiamo cercare di risalire il più presto possibile, aggrappandoci a quel poco di barlume che la nostra coscienza ci offre.
La crisi ambientale è forse molto più grave della crisi economica, e invece è stata ridotta a un hobby di alcuni ‘esasperati’ ecologisti o ad una questione che si risolve trasformando ogni cosa (l’acqua, l’aria, le foreste…) in merci e servizi monetizzati.

Crisi delle risorse alimentari
Strettamente legata alla crisi ambientale è la crisi delle risorse alimentari, di cui, oltre al cibo, è parte integrante anche l’acqua. Ancora una volta questa crisi è valutata soltanto o quasi esclusivamente in termini quantitativi e non in termini di presa di coscienza della nostra appartenenza all’intero genere umano.
Raramente si prende in considerazione il problema di fondo, che è quello dell’accaparramento: una parte dell’umanità (quella a cui noi apparteniamo) si impadronisce di risorse esagerate rispetto ai suoi bisogni (spesso dilatati e moltiplicati dai ‘bisogni’ dell’economia dei consumi), mentre la stragrande maggioranza non ha neppure il minimo necessario per sopravvivere.
La maggioranza dell’umanità vive con gli scarti alimentari e con i rifiuti dei medicinali dei paesi ricchi, spesso cercando nelle discariche dei ricchi il minimo necessario per sopravvivere. Più di una volta sono stati inviati ai paesi del cosiddetto ‘terzo mondo’ medicinali scaduti, addossando ai paesi poveri anche i problemi dello smaltimento. Quando un paese è in difficoltà, la ‘ricetta’ che gli viene imposta passa sempre per la riduzione dei servizi sanitari, sociali e assistenziali, che nei paesi ricchi diventano sempre più raffinati e dispendiosi (ma anche qui, non per tutti: la linea di demarcazione tra ‘ricchi’ e ‘poveri’ comincia ormai ad insinuarsi nei paesi del cosiddetto ‘primo mondo’).
I testi che qui presentiamo: «I retroscena dell’economia verde» e «I popoli del mondo di fronte all’avanzata del capitalismo», elaborati da varie organizzazioni di base a livello latino-americano e internazionale, forniscono su questi temi una riflessione lucida e ferocemente critica che documenta in modo dettagliato le vicende e i punti sin qui richiamati.

La crisi culturale
Sullo sfondo di tutte queste crisi si delinea quella che forse è la crisi più grave (su cui stiamo lavorando, nel tentativo di risolvere anche questa a nostro favore). Si tratta della crisi culturale.
In questa crisi c’è un aspetto positivo, perché è messo in discussione il mito del ‘pensiero unico’, che ha consentito la conquista del mercato da parte dei ‘predatori’ dell’economia e l’instaurarsi di un ‘potere unico’ che ha espropriato la sovranità degli Stati e dei cittadini.
Su questo legame ci sarebbe molto da dire, ma può bastare un esempio significativo: l’esperienza di un pastore protestante americano che sta coinvolgendo milioni di persone a confezionare sacchetti di cibi, vitamine e medicine, scelti in base alle abitudini alimentari e terapeutiche americane, da distribuire ai bambini dei paesi ‘poveri’ a condizione che frequentino le scuole (per lo più canali della cultura occidentale moderna). Così, insieme al cibo americano, verrà loro ammannita la cultura statunitense.
Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che siamo di fronte ad una crisi strutturale, anche se i ‘tecnici’ dell’economia e della finanza che stanno dirigendo il mondo della politica sembrano non accorgersene o hanno intenzione di non accorgersene.
Comunque sia, sembra di essere caduti in una situazione in cui si vuole realizzare l’aumento delle disuguaglianze come fattore di crescita, l’annullamento del concetto di lavoro, e il profitto come unico obiettivo da raggiungere.
La cosa più grave è che nessuno sembra avere in mano qualcosa per controbattere questa avanzata; la presenza dei tecnici economico-finanziari, che hanno scalzato i politici, è l’espressione più chiara ed evidente di questa situazione: non c’è nessuno che abbia la forza di dare soluzioni diverse.
D’altra parte l’impressione generale è che lo status quo in cui annaspiamo oggi non debba durare a lungo. Quasi nessuno di noi, che facciamo parte dei paesi ricchi, ha preso in considerazione uno standard di vita più sobrio. Sembra che tutti siamo decisi a partecipare alla fiera del consumismo, che dovrebbe presto re-innescare la catena dell’acquisto, che permetterebbe di nuovo di mettere in moto il volano della crescita.
Siamo però perplessi e sfiduciati, perché non sembra neppure apparire all’orizzonte un progetto che riesca a dare una svolta alla situazione di emergenza in cui ci stiamo dibattendo.
Tenteremo qui di accennare ad alcune proposte che ad alcuni possono sembrare assurde (ma spesso le cose più impossibili possono poi apparire le più reali…).
La prima proposta, che non siamo i primi e tanto meno gli unici a formulare, sarebbe quella di uscire da una concezione statalista, che finora ha sempre cercato di dare soluzioni uguali per tutti, e riportare l’esercizio della responsabilità a dimensioni locali, cercando a questo livello le risposte adeguate alle emergenze che si stanno moltiplicando.
A prima vista può sembrare un progetto di ritorno al passato, a quel mondo vicino alla barbarie che le nuove organizzazioni statali, continentali e mondiali avrebbero (fortunatamente, secondo noi) eliminato.
Nella nostra mentalità occidentale, l’uomo cammina su una linea retta, dal passato al futuro: non si va verso il futuro se non si voltano le spalle al passato. Forse dobbiamo provare ad aprirci a una visione diversa, sostituendo all’immagine della linea retta l’immagine a tre dimensioni di una spirale, lungo la quale il passato può essere un seme di rinnovamento e di rigenerazione nel cammino verso il futuro.
Forse i popoli che non sono stati toccati dalle nostre democrazie, dai nostri stati sovranazionali, dalle nostre imprese intercontinentali o dalla nostra tecnologia potrebbero darci indicazioni preziose per un rinnovamento e per una rinascita.
Probabilmente ci verrebbero date indicazioni che in nome della tecnologia noi abbiamo abbandonato e disprezzato.
Non si tratta di negare la tecnologia, ma forse di far dialogare i vari momenti della vita: quello del rispetto della natura, quello della creatività umana e soprattutto quello della relazione tra le varie componenti dell’esistere.
Su questi temi ci accompagna nel ragionare la bella sintesi di Aldo Zanchetta su: «Crisi. Quale crisi? Una riflessione rileggendo Ivan Illich», dedicata all’analisi e alle prospettive del cambiamento, che s’interroga sui temi che oggi ci appassionano (la crisi, le cause, le ipotesi per il cambiamento) e ne identifica le premesse culturali e gli insiemi (il modo di produzione industriale, la produzione di massa e il consumismo) che schiacciano le forme di organizzazione delle nostre economie e delle nostre società.
Un esempio delle indicazioni che ci potrebbero venire da altri mondi culturali che noi consideriamo ‘arretrati’ e ‘bisognosi di aiuto’ è dato dal testo intitolato «Sette fortune contro sette sventure», in cui un esponente di una popolazione indigena del Borneo traccia un parallelo lucido e significativo fra i valori e il sistema di vita del suo popolo e i principi che reggono il sistema sviluppo che lo sta riducendo all’emarginazione e alla miseria.

Tentativi di risposta alla crisi
Da alcuni decenni fortunatamente sono state sviluppate e si sono moltiplicate diverse esperienze in vista di una nuova economia, del rispetto per l’ambiente, di un modo nuovo di vivere la nostra appartenenza alla natura e di concepire il nostro ruolo al suo interno, e ce ne siamo rallegrati, ma forse non ci siamo impegnati perché questi movimenti potessero creare una svolta nell’umanità. Speravamo ad esempio che avrebbero potuto creare un sano rapporto tra finanza ed etica, ma siamo rimasti molto disillusi.
La Banca Etica, con 14 filiali sul territorio nazionale e circa 360.000 soci, non ha dato che un semplice messaggio, senza riuscire ad influenzare in qualche modo i mercati e le borse mondiali. Ugualmente importante è l’esperienza del microcredito per coloro che non possono accedere ai prestiti delle banche normali sia nel nostro paese che all’estero (purtroppo dobbiamo tener presente che in Italia il tasso di esclusione bancaria è uno dei più alti di tutto l’Occidente). Questo progetto ha avuto una buona divulgazione anche nell’ambito della Comunità Europea, ma è rimasto un progetto di nicchia, il cui influsso non è andato al di là di conferenze, articoli, dichiarazioni e onorificenze.
Anche la cosiddetta responsabilità sociale delle imprese rischia di risolversi in una terribile bugia e in una nuova disillusione, nonostante avesse avuto l’assenso delle maggiori aziende italiane. Un sistema che ha come soli obiettivi il profitto e il capitale rischia di non lasciare possibilità di relazioni alternative, tanto più quando si è fatto della competitività il fondamentale modello di azione. Altrettanto encomiabile e certamente da favorire è l’attività dei Gruppi di acquisto solidale (GAS) nell’area dei consumatori responsabili, come anche del Banco Alimentare, del Commercio Equo e solidale, delle esperienze come quelle di Comunità e Famiglia o dei Bilanci di giustizia… e non rimane spazio per elencare altre attività e iniziative simili, tutte proiettate verso un cambiamento del nostro modo di vivere.
Nonostante questi tentativi, tutti corriamo il rischio di cadere in una contraddizione e forse in un assurdo. Nei lontani anni Settanta, un economista, presidente dell’American Economic Association, ebbe a dire: «Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle. Oppure un economista». Gli fa eco oggi Maurizio Pallante: «Mentre lo sviluppo è di per sé insostenibile, la sostenibilità prevede l’abolizione dello sviluppo».
Allora è tutto inutile? Il sistema economico-sociale non può essere migliorato? I movimenti alternativi saranno capaci di dare una risposta diversa e cambiare la cultura che è innestata nel nostro comportamento?
Tutte le attività e i movimenti a cui abbiamo accennato sono esperienze preziose per mantenere vivo il significato simbolico del cambiamento, ma non riusciranno a risolvere i problemi dell’economia globale modificando il sistema dall’interno.

Verso una nuova cittadinanza
È bene, è assolutamente utile e necessario continuare a lavorare in questa direzione ‘alternativa’ per tentare di sollecitare tutti a prendere coscienza della crisi dell’attuale modello neoliberista.
Però la situazione appare come un inevitabile collasso del sistema, e non sappiamo bene chi saranno coloro che pagheranno il prezzo maggiore. Probabilmente i più poveri, i ‘naufraghi’ abituati a sopravvivere in situazioni estreme, potranno essere le fondamenta di un mondo nuovo che noi ancora non conosciamo e non riusciamo neppure ad immaginare perché totalmente fuori dalla nostra portata persino di pensiero.
Molti, anche eminenti studiosi, auspicano la soluzione attraverso una maggiore presenza dello Stato, il più universale possibile, ma ben sappiamo che le istituzioni non saranno capaci di fare una svolta radicale, e i nemici più acerrimi del cambiamento saranno quelli che lavorano dentro le istituzioni, perché le istanze di un vero cambiamento rischiano di vanificare i loro sforzi di riforma.
Le istituzioni, più sono ampie, più sono autoreferenziali. Abbiamo bisogno di istituzioni che abbiano il compito di realizzare le proposte e le attese del popolo, soprattutto dei più deboli, perché questi non hanno la possibilità di fare da soli.
Le istituzioni che oggi conosciamo sono fatte a misura di chi le gestisce. Dovremmo dunque sostenere un altro genere di istituzioni, e crearle se non esistono.
Mi azzarderei a dire che non ci saranno soluzioni nuove finché non assumeremo noi stessi la responsabilità di governarci direttamente da soli fino a sostituirci alle istituzioni; poi sarà la base a invocare l’intervento delle istituzioni qualora ne sentisse il bisogno.
Non sarà facile che questo avvenga, perché siamo stati educati solo ad obbedire e non a prenderci delle responsabilità. Potrà forse realizzarsi questo ‘sogno’ quando gli ultimi, gli emarginati, gli stranieri, gli sfruttati saranno talmente stanchi dell’oppressione delle leggi e delle istituzioni che si ribelleranno, e allora sarà un momento duro e difficile per tutti.
Oppure saliranno o scenderanno dai paesi più poveri gli affamati, gli sfruttati, coloro che non hanno nulla da perdere.
Abbiamo l’impressione (ma è un’osservazione ormai fatta da troppi), di essere nella stessa situazione della fine dell’impero romano, quando i barbari invasori (che non erano altro che torme di emigranti) scesero a Roma, e i romani non opposero praticamente resistenza, perché erano sicuri della loro potenza militare e giuridica, della loro ricchezza e del loro potere. Così furono colonizzati da coloro che avevano colonizzato.
È una storia che potrebbe ripetersi in un mondo come quello di oggi. Siamo tanto preoccupati di mantenere i nostri diritti e le nostre conquiste, siamo tanto impegnati addirittura ad esportare le nostre conquiste e le nostre leggi, fatte da noi e per noi, da non accorgerci che quello che possediamo e difendiamo ormai non ha più senso per noi.  
Abbiamo perso il significato e ci troviamo chiusi in una situazione che non siamo più capaci di sopportare. Abbiamo bisogno che qualcuno venga a liberarci.
Che si tratti di una liberazione e non di un’altra colonizzazione dipenderà anche da noi, dalla trasformazione culturale che sapremo compiere. Il dialogo con le culture ‘altre’, le culture dei poveri e degli emarginati del mondo, è un passaggio ineludibile e portatore di speranza.
Su questo difficile terreno, quello di un percorso di liberazione attento alle esperienze del passato, ai frutti del presente perché nulla del già detto e già fatto sia sprecato, ma aperto ai nuovi compiti dove il dire e il fare si coniughino in modo coerente e con forza, si misurano il saggio dell’associazione Re:Common («Fare ‘comunella’ per riappropriarsi dei beni comuni») e quello di Johnny Dotti («L’emergenza welfare. Ridisegnare la nostra cittadinanza »), che proponiamo perché, per la ricchezza delle riflessioni e la forza delle proposte sostenute da una lunga esperienza e conoscenza nelle forme sociali di economia, offrono un importante punto di riferimento da cui ripartire per dialogare e associarsi agli sforzi di costruzione di un’altra economia e di un’altra forma di vita comunitaria e nazionale. Questo richiederà l’abbandono dell’ideologia di una crescita economica senza fine e la decisione di intraprendere la strada concreta della costruzione di una «società dei beni comuni», con la consapevolezza dell’ineludibile esigenza di una profonda trasformazione dei modi di pensare e degli stili di vita.
Concludono il numero le riflessioni di Giuseppe Stoppiglia, che individua le radici della crisi economica e finanziaria in una profonda crisi morale dell’Occidente e invita a un «cambio della mente e del cuore» perché l’uomo torni ad essere un «cuore pensante», capace di andare oltre la visione di un «mondo-macchina» per ritrovare «l’amore verso tutto ciò che esiste e vive».