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Venerdì 19 maggio 2017 ore 20.45
presso il Centro Natura - Sala del camino

via degli Albari 4/a - Bologna

 

collana InterCulture
già rivista dell’Istituto Interculturale di Montreal

presentazione del volume:

Vie di pace
 
intervengono:
Arrigo Chieregatti
direttore della collana

Antonio Genovese
pedagogista
 
Pace è consuetudine e scambio di vita fra gli uomini:
dalla famiglia al clan, al popolo, alla moltitudine delle genti.
Un cammino faticoso, perché l'uomo trova difficile
non mettersi al primo posto
considerando gli altri come vassalli.
Molte sono le vie della pace.
Questo volume ne esplora alcune.

 
scarica il programma dettagliato
 
Gandhi a Tavistock Square, Londra: lotta al terrore e non-violenza PDF Stampa E-mail
di Vinay Lal2

Il centro di Londra ha molti bei parchi, oasi di riposo, di riflessione e di meditazione. Quasi tutti sono legati a memorie storiche, ma quello di Tavistock Square è straordinariamente significativo. Al suo centro si trova una delle statue più commoventi di Mohandas Gandhi (1869-1948). La statua, opera dello scultore britannico Fredda Brilliant, è stata donata alla città di Londra dall’Alto Commissario indiano in Gran Bretagna nel 1967 ed è stata inaugurata dal Primo Ministro del partito laburista di allora, Harold Wilson.
Durante la mia prima visita a Londra nel 1989, dopo aver depositato i bagagli a Upper Woburn Place, mi sono affrettato a Tavistock Square per vedere questo monumento dedicato al principale artefice del movimento per l’indipendenza dell’India. L’armonia tra forma e funzione, luogo e scopo, passato storico e presente è un omaggio assai appropriato alla filosofia gandhiana della pace e della non-violenza.
Dopo l’orribile carneficina e nella confusione provocata dagli attacchi terroristici del 7 luglio 2005 non credo che molti pensino al destino di una statua. Ma la sua presenza nelle vicinanze della scena del massacro avvenuto quel giorno in Tavistock Square (dove una delle quattro bombe ha fatto esplodere un autobus, uccidendo 13 delle 52 persone innocenti che si trovavano a bordo) ha il suo significato nella storia del nostro tempo.
La statua di Gandhi conferiva una certa serenità a Tavistock Square, e altri monumenti di pace vennero presto ad aggiungersi ad essa. Venne piantato un ciliegio in memoria delle vittime del bombardamento di Hiroshima; la Lega delle Donne Ebree nel 1986 piantò un acero per commemorare l’Anno internazionale della pace proclamato dalle Nazioni Unite; nel 1995 venne collocato nella piazza un monumento in granito per onorare gli obiettori di coscienza, e fu uno di loro, il compositore Michael Tippett, ad inaugurarlo. È ben comprensibile, dunque, che i londinesi chiamino Tavistock Square «il parco della pace».
Gandhi è rappresentato seduto, in atteggiamento pensieroso e meditativo; non è la consueta immagine di Gandhi con il suo bastone, legata al ricordo della famosa marcia verso il mare. Per un lungo periodo, negli anni ’70 e ’80, il canale della televisione di stato indiana, Doordarshan, ha utilizzato questa immagine per annunciare il suo telegiornale.

a) La non-violenza come conversazione
Non lontano da Tavistock Square c’è l’University College London, che nel suo sito internet vanta di avere Gandhi fra i suoi laureati. Gandhi arrivò a Londra appena diciannovenne, nel 1888, per studiare legge. In questa città fece il suo primo e il suo ultimo soggiorno all’estero; la prima volta era venuto per assumere il ruolo del gentleman inglese e per tributare l’abituale omaggio che i dominati devono ai loro oppressori, mentre il suo ultimo viaggio, nel 1931, lo vide dialogare alla pari con il viceré per negoziare l’indipendenza dell’India. Nel frattempo, Gandhi si era sbarazzato di molte cose: il cappello a cilindro, il frac, la timorosa venerazione dell’indigeno per l’uomo bianco e la dipendenza della civiltà occidentale dalla droga della violenza.
Gandhi aveva imparato a diventare un indomito sostenitore della non-violenza attraverso incontri ravvicinati con il suo contrario. In molte occasioni si era trovato a tu per tu con l’orrore puro della violenza razziale in Sud Africa. Aveva creato un corpo di barellieri per assistere i soldati britannici durante la guerra boera scoppiata nel 1899, e lo stesso aveva fatto nel 1906 all’inizio della «ribellione» zulu.
La maggior parte dei commentatori considera con ragione questi episodi come espressioni dell’ardente convinzione di Gandhi che gli indiani avrebbero potuto reclamare i propri diritti all’interno dell’impero britannico soltanto se fossero stati pronti a difendere l’impero contro i suoi avversari. In un’epoca in cui il linguaggio dei diritti cominciava già ad appartenere al vocabolario della prassi e della discussione politica, Gandhi non cessava di insistere sull’importanza di non perdere la nozione dei propri doveri.
Ma la caratteristica di Gandhi consiste nel fatto che, invece di fuggire la violenza, di essere paralizzato dalla sua brutalità o di vantare una sensibilità pacifista, egli entrò nel campo di battaglia della violenza con il ruolo del guaritore, portando la verità (come la percepiva allora) sulla barella della non-violenza. Da quel momento in poi avrebbe avuto una consapevolezza dialettica, dialogica ed ermeneutica della non-violenza.
I sostenitori della violenza parlano raramente o non parlano affatto con i seguaci della non-violenza, e una delle varie ragioni per cui Gandhi considerava la non-violenza superiore alla violenza era proprio il fatto che i suoi fautori tendono la mano e invitano al dialogo coloro che credono fermamente nell’utilità della violenza. I sostenitori della non-violenza intrattengono sempre una conversazione con i seguaci della violenza. Questa relazione portò Gandhi a rendersi conto che certe forme di non-violenza sono in realtà violenza, che l’evitare la violenza non è necessariamente una forma di azione non-violenta e che possono esserci occasioni in cui la pratica della violenza è l’unico modo per onorare lo spirito della non-violenza.
Ai tempi di Gandhi e in quelli successivi, egli fu pressoché l’unico fra i principali teorici e attori del cambiamento rivoluzionario a sostenere il primato della non-violenza, contrapponendosi a tutta una galassia di figure (Lenin, Trotsky, Fanon, Mao, Castro, Che Guevara) che non solo esaltavano la violenza, ma liquidavano la non-violenza come una chimera. Gandhi presentava Tolstoj come una figura degna di essere imitata, mentre Lenin parlava con aperto disprezzo della «predicazione imbecille» di quel suo compatriota che invitava a «non resistere al male con la forza».
Ai nostri giorni è ancora più raro sentir parlare di non-violenza. Si potrebbe dire, ovviamente, che Trotsky, Fanon e Che Guevara sono figure lontane quanto Gandhi dalla Jihad o dai kamikaze, e che la formazione che i terroristi ricevono è di tutt’altro genere. Dopo gli attacchi del 7 e del 21 luglio a Londra, si è molto parlato delle «cellule dormienti» che si dice siano state costituite da Al-Qaida in Gran Bretagna, delle madrase (scuole coraniche) in cui si crede che gli uomini musulmani vengano indottrinati all’odio verso l’Occidente e degli esperti di guerra terroristica che sarebbero una forma, del tutto imprevista, dell’icona transnazionale del XXI secolo.
Qualunque sia l’addestramento specifico necessario per confezionare una bomba a partire da materiali esplosivi, per pianificare e orchestrare un attacco in luoghi sottoposti a intensa sorveglianza e per arrivare ad avere il coraggio di far esplodere in uno spazio pubblico molto frequentato gli ordigni fissati al proprio corpo, la formazione ricevuta dagli esecutori degli attentati di Tavistock Square e della metropolitana di Londra non era soltanto quella delle scuole coraniche e delle moschee radicali.
Gli attentatori avevano frequentato anche le scuole laiche e le università della Gran Bretagna, e avevano assorbito le lezioni «della strada», non nel senso di ciò che imparano i bambini disagiati o i ragazzi di strada, ma osservando (attraverso la televisione, i filmati, la diffusione della cultura popolare degli «eroici soldati») la guerra condotta dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna in Afghanistan e in Iraq. Hanno preso l’imbeccata dalla cultura della violenza in cui sono profondamente immersi gli artefici della guerra al terrorismo. Gli attori del terrorismo hanno capito che ci sono molti modi per accedere alla «professione».

b) Un patto di violenza
Nonostante gli orrori del 7 luglio, Tavistock Square continuerà forse ad essere conosciuto come il «parco della pace» di Londra – se non altro perché la leggenda che subito si è diffusa a proposito della forza di carattere, della resilienza e della determinazione dei londinesi ha bisogno di essere incarnata e mantenuta viva. Ma tali consolazioni rassicuranti tendono a nascondere più che a rivelare la cultura della violenza che tiene insieme la società moderna. Gandhi è stato abbattuto da un assassino, come è successo a Martin Luther King Jr vent’anni dopo. È molto logico, anche se è inquietante, che un fautore della violenza risponda a un profeta della non-violenza. Uno degli aspetti più allarmanti della violenza è il suo essere irreversibile, proprio perché i suoi attori, con la loro stessa azione, pretendono di possedere una versione o una conoscenza superiore della verità.
Gandhi ha intuito una verità fondamentale relativamente al colonialismo, e cioè che si tratta di un patto fra i colonizzati e il colonizzatore (e i patti non escludono elementi di inganno, di coercizione e di attrazione). Questo può aiutarci a prendere coscienza del patto che guida la cultura moderna della violenza. I colonizzati sono stati indubbiamente sfruttati e danneggiati, ma sono stati anche attratti dal luccichio dell’Occidente moderno. I leader occidentali e i «buoni samaritani» di oggi provano indubbiamente repulsione di fronte agli atti selvaggi e brutali di violenza; ma li attendono anche col fiato sospeso, come se quegli atti parlassero un linguaggio che è loro profondamente familiare. Come si potrebbe spiegare in altro modo quell’espressione straordinariamente idiota, oscena e carica di terrore e di arroganza: la «guerra al terrore»? Il terrorismo, dopo tutto, è una manna per coloro che conducono la «guerra al terrore».
Forse è fantasia supporre che l’attentatore di Londra che ha scelto di far esplodere una bomba nel parco della pace, a poca distanza dalla statua di Gandhi, cercasse nel suo macabro modo di entrare in dialogo con Gandhi e con i sostenitori della non-violenza. Siamo entrati in una fase di violenza brutale e senza fine. I terroristi e i fautori della «guerra al terrore» sono legati da un terribile patto. La violenza è vorace. Non tollera opposizioni. L’assassino di Gandhi e i suoi mandanti, sostenitori, protettori, dopo essersi sbarazzati di lui, hanno sempre cercato con determinazione di insediare la violenza come monarca supremo. Il giorno in cui gli assassini della non-violenza avranno finito il loro lavoro, ci sarà ancora qualche statua di Gandhi?

NOTE
1. Questo articolo è stato pubblicato in inglese da Open Democracy , un forum di discussione online (www.opendemocracy.net/conflict-terrorism/gandhi_2700.jsp# ), il 25 luglio 2005.
2. Docente al Dipartimento di Storia dell’Università della California a Los Angeles, collaboratore dell’IIM e membro del Riac(d).