Indicazioni bibliografiche al n. 7 |
a cura dell’IIM Presentiamo qui di seguito alcune opere relative alla tematica affrontata in questo numero, limitandoci al sufismo e alla venerazione dei santi (1), alla presentazione di alcuni «nuovi pensatori» dell’islam (2) e al dialogo islamo-cristiano (3). Per quanto riguarda il secondo paragrafo, vogliamo sottolineare che si tratta di una rassegna indicativa, realizzata in maniera molto diseguale, senza la minima intenzione di privilegiare l’uno o l’altro autore. Non abbiamo potuto fare di più, sia per motivi di spazio, sia per i limiti stessi della nostra ricerca e delle pubblicazioni di cui disponiamo sull’argomento. 1. Il «cuore», lo «spirito» del messaggio coranico e la spina dorsale nascosta dell’islam popolare: il sufismo (tasawwuf) e il misticismo musulmano
La venerazione condivisa dei «santi» I «santi» sono quei personaggi che i musulmani nella loro lingua chiamano walî o awliyâ’ (amici di Allah), cioè coloro che sono vicini ad Allah e sono «amici» e patroni dei devoti. Il santo protegge quelli che l’onorano. In Marocco si usa il termine «marabutto», che viene da una radice che significa «legare»: il santo è uno «che è legato a Dio». Si usa anche la parola salik (pio). Si tratta di una manifestazione che è presente in molte forme di islam. Il santo poteva essere molto istruito, o anche un capo politico (ad esempio un sultano), oppure semplicemente una persona umile e devota. Alcuni sono specificamente collegati al sufismo, tuttavia manifestano una santità non raggiunta dalle persone normali. Ma ciò che distingue i santi è il potere della baraka.1 Sono considerati musulmani esemplari e devoti, che vanno al di là delle normali esigenze di moralità e di virtù e vivono in modo più austero. Rappresentano l’ideale della pietà musulmana. Sono visti come intermediari fra Dio e la gente comune. Poiché li si considera come persone più vicine a Dio, si ritiene che possano intercedere più efficacemente presso Dio a favore degli altri. Quando sono ancora in vita e dopo la loro morte sono venerati come persone che hanno un rapporto speciale con Dio. Sulla venerazione condivisa dei santi giudaici e musulmani si può consultare il recente studio di Jessica Maya Marglin dal titolo: Transcending Boundaries: Jewish and Muslim Shared Saint Veneration in Morocco2 . La venerazione condivisa dei santi indù e musulmani in India è ampiamente praticata da entrambe le parti. Libri e articoli sul sufismo
2. Breve rassegna di alcuni nuovi pensatori dell’islam Nel 2004 è uscito un libro di Rachide Benzine dedicato ai «nuovi pensatori dell’islam».3 Questi ultimi si differenziano sia dai «riformisti» del XIX secolo e degli inizi del XX, sia dai «modernisti» (una nozione portatrice di molte ambiguità). Possiamo citare in proposito anche un articolo in inglese di Amyn B. Sajoo, intitolato «Libertà dalle catene secolari. Fedeltà umanistiche nell’islam».4 Ci limiteremo qui di seguito a una breve presentazione di alcuni di questi personaggi e del loro pensiero. 2.1 Mohammed Arkoun Nato nel 1928 a Taourirt-Mimoun (Grande Cabilia, Algeria), è professore della Sorbona e direttore dell’Institut d’études Arabes et Islamiques (Paris III). Dal 1980 è anche direttore scientifico della rivista Arabica. La sua ricerca filosofica e religiosa è stata profondamente segnata dai grandi testi del pensiero islamico e dalle grandi correnti moderne delle discipline linguistiche, storiche, sociologiche, antropologiche e filosofiche, ma anche dalla tradizione orale e popolare.5 Elenchiamo qui di seguito alcune delle sue pubblicazioni:
In questo libro, uscito in francese nel 1975, Arkoun traccia le linee di una grande storia, quella del pensiero arabo, a partire dal «fenomeno coranico», che «rappresenta un evento linguistico, culturale e religioso che divide la civiltà araba in due versanti: quello del “pensiero selvaggio” e quello del “pensiero dotto”. Questa divisione è generalmente descritta dagli storici in una prospettiva cronologica lineare: prima del Corano si parla di paganesimo (Jâhiliyya), cioè di una società polisegmentare caratterizzata dal punto di vista linguistico dalla diversità dei dialetti e dal punto di vista religioso dal politeismo (“le tenebre dell’ignoranza”); (...) dopo il Corano viene descritta la irresistibile ascesa dello stato islamico fondato a Medina nel 622 da Muhammad – Maometto – e lo sviluppo parallelo di una lingua e di una cultura dotta, la “Luce dell’Islam”, secondo lo schema teologico» (p. 1). E Arkoun continua:
Se dunque in questo libro considereremo soltanto la storia del pensiero dotto, ciò sarà dovuto da un lato alla mancanza di spazio ma anche, dall’altro, alla difficoltà di giustapporre due ambiti di ricerca che di solito vengono tenuti distinti. Tuttavia nel capitolo quarto ritorneremo sul problema della costante interazione fra cultura dotta e cultura popolare (pp. 1-2).
Già nel 1978, in questo scritto elaborato in vista della «Conferenza mondiale delle religioni per la pace» (CMRP) del 1979, Arkoun deplora la totale assenza di analisi critica delle diverse tradizioni religiose universali, come se il loro passato le abilitasse a predicare la pace in termini immediatamente credibili per tutti i nostri contemporanei. Non si può più ignorare con arroganza questa superbia di cui si nutre ogni convinzione religiosa affermata, ma non integrata da un pensiero ponderato – la situazione ideologica del nostro mondo attuale... (p. 198). Bisogna «adoperarsi per un altro pensiero religioso, non contro, né senza i pensieri legati alle diverse tradizioni religiose, ma con uno sforzo solidale per eliminare sempre più tutte le forme di oppressione...» (pp. 198-199). Per quanto riguarda gli strumenti, Arkoun afferma che solo recentemente, dopo il concilio Vaticano II, le religioni semitiche (ebraismo, cristianesimo e Islam) hanno cominciato a dialogare, ma era un dialogo falsato in partenza, perché il Vaticano II, che ha preso l’iniziativa, l’ha inserita in una struttura amministrativa denominata «Segretariato per i non cristiani», il che traduce chiaramente la vecchia visione di una cattolicità chiamata ad estendersi all’intera umanità, ieri attraverso le vie della missione, oggi attraverso le vie «del dialogo». Gli ebrei dal canto loro continuano a privilegiare «il popolo eletto», e i musulmani pretendono di essere «i veri detentori dell’ultimo stadio della Rivelazione» (p. 199). Queste tre religioni monoteiste sono segnate dall’influsso di una Verità totalitaria, unica, intangibile, Rivelazione autentica di Dio, e da rigide separazioni teologiche fra eletti e non eletti, cristiani e non cristiani, fedeli e infedeli. Riaffermando, da una parte e dall’altra, posizioni ideologiche dettate da volontà di potenza o da istinti di difesa, si alimenta il clima di guerra anche quando si rivendica la pace. Bisogna che le religioni si convertano a un’altra visione di se stesse, chiedendosi se devono continuare ad affermare le categorie a priori della ragione teologica, o se non è venuto il momento di ripensarle alla luce dei dati dell’«uomo cambiato dall’uomo» (p. 201). Arkoun richiama l’attenzione sugli schemi di pensiero ormai troppo ristretti, o addirittura obsoleti, di tutte queste religioni. Bisogna riconoscere «le difficoltà teoriche nascoste, eluse o insospettate che sono presenti in ogni discorso dell’idealismo religioso tradizionale». È necessario «riesaminare lo statuto sociale storico e gnoseologico della religione in quanto tale, senza scatenare immediatamente guerre di religione» (p. 201).
Nel 1984, Arkoun dà l’esempio elaborando una prima «critica interna» della ragione islamica. Come dice la presentazione che figura sul retro della copertina del libro, la critica della ragione islamica è un’impresa nuova e particolarmente urgente nella fase storica che le società musulmane attraversano a partire dagli anni ’50. Atteggiamenti critici sono emersi nell’epoca classica (dal I al V secolo dell’Egira) all’interno delle discipline coltivate da pensatori e studiosi di primo piano, ma non c’è mai stata una considerazione globale di tutte le produzioni della ragione nutrita, guidata, dominata dai testi sacri (Corano e Hadîth) per sottoporle a una duplice analisi: Capitolo II Arkoun descrive la nozione classica di ragione islamica (di cui si avvale l’Islam politico attuale) e la sua funzione di legittimazione. Ne fa un’«analisi decostruttiva e costruttiva»; fa una critica epistemologica dei suoi principi, delle sue procedure, delle sue categorie, della sua tematica, dell’«impensato che scaturisce dalla sua organizzazione tipica del pensabile» (p. 66). Sottolinea
La competizione aperta dal Corano fra «la luce dell’Islam» e «le tenebre della Jâhiliyya» non ha mai cessato di svilupparsi, con il califfato e poi con i poteri locali e anche con i capi di confraternite o marabutti. L’opposizione enunciata da Dio (e quindi trascendente) fra i popoli del libro e «gli umiyyûn [illetterati] che non conoscono il libro, ma si perdono in vani desideri e congetture» (Corano II,78), viene sistematizzata dai teologi giuristi in un codice rigoroso di definizioni, qualificazioni, suddivisioni (p. 94).
Capitolo VI Secondo Arkoun,
La seconda parte del libro (capitoli X-XII, pp. 299-378) è una lettura dello spazio maghrebino. Capitolo X Il contenuto di questo capitolo, dedicato alle «modalità di presenza del pensiero arabo nell’Occidente musulmano», è riassunto dallo stesso Arkoun nei seguenti termini:
Arkoun continua la sua ricerca, offrendo una lunga ed esigente riflessione a un’Algeria brutalmente arrestata nel suo slancio verso un destino storico paradigmatico: quello di cui parla ciascuna di queste pagine, ispirate dall’inestinguibile desiderio di una ricomposizione intellettuale, culturale, spirituale e politica di tutto lo spazio storico mediterraneo. Gli argomenti trattati nei vari capitoli possono dare un’idea dei contenuti del libro:
2.2 Abdulkarim Soroush (Iran)6 Abdulkarim Soroush è un noto intellettuale religioso e riformatore iraniano, popolare nel suo paese e molto ascoltato. Non ha mai fatto parte del governo, che tuttavia ha risentito della sua influenza. Nato a Teheran nel 1945, ha studiato metafisica alla scuola superiore, ha acquisito una laurea triennale in farmacologia e poi si è recato in Inghilterra, dove si è laureato in chimica analitica. Rientrato nel suo paese dopo la vittoria della rivoluzione islamica nel 1979, è stato nominato dall’ayatollah Khomeini come uno dei pochi membri del Consiglio della Rivoluzione culturale, un organo che aveva il compito di riaprire le università e di rivedere i sillabi (in altri termini, di purificare gli studenti e di islamizzare le università dopo la loro chiusura nel 1980). È la parte più oscura della sua vita. Nel 1983 ha dato le dimissioni dal Consiglio, e da allora non ha più avuto ruoli ufficiali all’interno del sistema che governa l’Iran. Dopo aver abbandonato la sua carica ufficiale, Soroush si è dedicato a un lavoro intellettualmente più significativo. I suoi contributi principali comprendono una serie di articoli e di libri che cercano di fornire una nuova interpretazione della shari’a alla luce di nuove intuizioni nel campo della giurisprudenza, dell’ermeneutica e della sociologia della conoscenza. All’inizio degli anni ’90 ha pubblicato alcuni dei suoi articoli più discussi sul pluralismo religioso, l’ermeneutica, la tolleranza e il clericalismo, attirando su di sé gli attacchi dei conservatori della linea dura. I suoi articoli sono sempre stati di natura filosofica, ma hanno anche contribuito a cambiare l’atmosfera politica e sociale in Iran. Ha sostenuto ad esempio (adducendo argomenti a sostegno delle sue tesi) che la religione dovrebbe essere compresa tenendo conto del periodo storico; ha descritto la natura di un governo democratico religioso e ha affermato che la religione è «più solida dell’ideologia» e che si dovrebbe smettere di farla entrare di forza in qualcosa! Gradualmente ha assunto una posizione sempre più critica sul ruolo politico svolto dal clero iraniano. Come risultato, non solo è stato messo in difficoltà in molti modi ed è stato preso di mira dalla censura, ma ha perso il lavoro e la sicurezza personale. Nel corso dell’anno accademico 1995-96, le numerose irruzioni in aula durante le sue lezioni o le sue conferenze l’hanno costretto ad abbandonare l’insegnamento e l’attività accademica nelle università. Non ha potuto riprendere il suo lavoro neppure con i cambiamenti che si sono verificati successivamente nel paese guidato dai riformisti, molti dei quali erano stati suoi studenti e discepoli. Dall’anno 2000 è visiting professor all’Università di Harvard e scholar in residence presso le Università di Yale e di Princeton; nell’anno accademico 2003-3004 è stato visiting scholar al Wissenschaftkolleg di Berlino. Ricevendo il premio Erasmo ha detto: La fondazione non mi ha dato soltanto un premio, ma anche un titolo onorifico: «l’Erasmo dell’Islam». Alcuni anni or sono mi hanno definito «il Lutero dell’Islam». È evidente che non sono responsabile di queste attribuzioni, ma se dovessi scegliere opterei decisamente per «Erasmo». Questo personaggio mi attira più di Lutero. Credo che oggi l’umanità abbia davvero bisogno di un’interpretazione spirituale dell’universo, così come di un’emancipazione spirituale. Nel campo dell’etica politica ricordo sempre a me stesso e ai miei amici l’orribile abisso fra diritti e doveri che c’è nella società moderna. L’eccessiva accentuazione dei diritti nell’Occidente liberale ha portato a trascurare di fatto i doveri e le responsabilità umane, mentre un’eccessiva concentrazione sui doveri ha reso praticamente invisibili i diritti in Oriente. Bisogna arrivare a un equilibrio fra le due cose.Soroush è radicato nella sua cultura iraniana e islamica ma si trova a suo agio nel pensiero occidentale. Elenchiamo sinteticamente qui di seguito alcune nozioni chiave del suo pensiero:
2.3 Fethullah Gülen (Turchia) Si tratta di un educatore sufi turco che insegna una forma moderata di islam. Una presentazione in inglese del suo Turkish Islam Movement è stata pubblicata dalla rivista MERIA.7 2.4 Amyn B. Sajoo
Sajoo elenca i nomi di altri intellettuali musulmani di vari paesi che definisce rowshanfekran,
Paradossalmente, i loro confratelli nella diaspora (Hamza Yusuf, Abdullahi An-Na’im, Mahnaz Afkhami, Bassam Tibi, Ebrahim Moosa, Nasr Abu Zayd, Ziba Mir-Hosseini) si trovano a loro volta in un ambiente che non può percepirli se non come «musulmani secolari», soprattutto in un periodo in cui, dopo l’11 settembre 2001, l’integrità del diritto nello stesso Occidente è spesso rimessa in questione.10 Si ricorderà che Hamza Yusuf era fra gli invitati a una riunione alla Casa Bianca in cui si discuteva con George Bush sugli avvenimenti del giorno, mentre l’FBI faceva irruzione nella sua residenza nel quadro di un intervento di repressione contro i «musulmani radicali». Dall’altro lato, ci sono voci della diaspora che propongono un’identità postmoderna radicata nel modello secolare occidentale. Il noto romanziere franco-libanese (cristiano) Amin Maalouf insiste decisamente su questo in uno dei suoi libri: «Non basta più separare Chiesa e Stato: ciò che riguarda la religione deve essere dissociato da ciò che riguarda l’identità. Se vogliamo che questo amalgama smetta di alimentare il fanatismo, il terrore e le guerre etniche, dobbiamo trovare altri modi per soddisfare il bisogno di identità. (...) Se l’affiliazione a una “tribù globale” deve essere messa da parte, questo può avvenire soltanto in vista di una cittadinanza molto più ampia, che includa una visione più piena dell’umanità. (...) Mi sembra che il vento della globalizzazione, che può indubbiamente condurci al disastro, possa anche condurci al successo»11 (p. 57). I timori ci sono familiari, come lo sono ai musulmani che conoscono le dolorose esperienze del nazionalismo etnico-religioso in Bosnia, in India, nella Palestina occupata da Israele. Quello che ci sembra meno convincente è il presupposto che tali tragedie siano innanzitutto una questione di religione (piuttosto che un vergognoso fallimento dei meccanismi civili nel risolvere i conflitti che nascono da un’acuta ingiustizia socio-politica). È ipocrita pretendere che la cultura civile sia guidata soltanto da regole secolari e aspettarsi che non ci sia una forte reazione da parte di coloro che sono esasperati quando queste regole si rivelano ben lontane dal corrispondere alle attese. Quella visione più piena dell’umanità di cui parla Maalouf non scaturirà dal vento della globalizzazione, a meno che esso non introduca modalità più efficaci di soluzione dei conflitti: la speranza che ciò avvenga è legata al fatto che questo vento soffi a partire da sorgenti più eticamente sensibili e umane, e non il contrario (p. 57). Questo ci riconduce all’interrogativo di fondo: un umanesimo esclusivamente secolare può sostenere culture civili dotate di affinità etiche significative? Non sembra, a giudicare non solo dallo stato della vita pubblica nella maggior parte delle democrazie attuali, ma anche semplicemente dalla dimensione delle devastazioni «secolari» del ventesimo secolo, dall’olocausto nazista e dal totalitarismo sovietico fino al Vietnam, alla Cambogia di Pol Pot e al Ruanda-Burundi (p. 58). Inoltre l’idea che i popoli non occidentali abbandonino (o possano abbandonare) i loro modi di vivere il sacro e il secolare in nome di identità postmoderne prive di radici locali è pura fantasia. Queste identità ne hanno già abbastanza di dover venire a patti con le implicazioni dei recenti progressi nel campo del genoma, che ci interrogano su chi siamo e ci chiedono se non stiamo dirigendoci con arroganza verso un «futuro postumano».12 Con queste ideologie secolari insoddisfacenti può succedere che il pendolo stia andando in un’altra direzione, come osservano diversi studiosi in un’opera collettiva intitolata «La religione ritorna in piazza»13 (p. 58). Tutto ciò indica il bisogno di un’etica transnazionale che abbracci una pluralità di impegni civili, religiosi e secolari. Bisogna riconoscere il campanilismo dei paradigmi liberali della giustizia distributiva, della sicurezza e dell’identità, che sembrano sempre fermarsi ai margini, così come l’imperativo di associare le norme civili ispirate dalla fede alla salvaguardia dei diritti civili alla luce dell’esperienza storica.14 Proprio perché ormai si impone l’esigenza di un’etica di questo tipo, dice Richard Falk, ciò può provocare «timore, apprensione e ritorno a certe strutture chiuse e rigide del passato, un passato tradizionalista e un secolarismo dalle vedute ristrette».15 Falk è stato fra i primi a pronunciarsi a favore di modalità di risoluzione dei conflitti al di là dello status quo incentrato sugli Stati Uniti, che ha reso un cattivo servizio in tante parti del mondo. Ai fondamentalisti secolari, Falk ricorda che l’equità e la non violenza non devono essere soltanto tattiche o pragmatiche, ma devono collocarsi nel campo dei fondamenti, come il satyagraha di Gandhi (p. 58). Ma che dire dei tradizionalisti che rifiutano un’etica inclusiva asserendo di attingere alla Scrittura? Qui intervengono i rowshanfekran, evocando critiche radicate in norme tradizionali chiaramente legittime, legate a un passato come luogo non di imitazione ma di eredità civili al di là delle catene del campanilismo. Lo stesso Maalouf osserva che alla fine del XIX secolo una città musulmana di primaria importanza come Istanbul aveva una popolazione a maggioranza non musulmana, più diversificata di quella di Londra o di Parigi. Andando ancora più indietro nel tempo, la Spagna dei Mori aveva conosciuto più di cinque secoli di sinergia cristiana, ebraica e musulmana, che aveva dato origine a Maimonide e a Ibn Rushd (Averroè) prima della fatidica Reconquista e della sua Inquisizione. Fra le eredità di un’epoca in cui Cordova aveva un’insuperabile biblioteca di 40.000 volumi c’è il De optima civitate di al-Farabi (un uomo del rinascimento ante litteram). Ispirata alla Repubblica di Platone, quest’opera dipinge una società costruita su una ragione civile che nasce dalla fede operante di individui preoccupati del benessere dell’insieme della comunità, che a sua volta ha obblighi solenni nei confronti dei meno privilegiati (p. 58). Ricordiamo anche, nell’Egitto dell’XI secolo, il non meno famoso rowshanfeker Hamid al-Kirmani che ha concepito una città e uno stato imbevuti di una cultura plasmata dalla fede (unendo il rispetto individuale per la legge e l’ordine sociale a un apprezzamento dell’esoterismo della saggezza coranica e profetica). Kirmani, che ha intitolato la sua opera Il conforto della ragione, è espressione della civiltà pluralistica del regime Fatimita, in cui i membri delle comunità ebraiche e delle comunità musulmane sciite e sunnite dominavano la vita pubblica e il mondo intellettuale (p. 58). È impossibile esagerare la continuità intellettuale e intuitiva delle correnti di esperienza pluralistica che collimavano nell’opporsi alle tendenze all’insularità. Non si tratta soltanto di legami episodici, come la creazione della prima stamperia di Istanbul nel 1492 (non molto tempo dopo l’invenzione di Gutenberg) ad opera di ebrei che fuggivano dalla Reconquista e trovavano aiuto in un altro territorio musulmano pronto a vivere un brillante periodo della sua storia, o come la padronanza delle tecniche di fabbricazione della carta da parte dei persiani e degli arabi in seguito alla conquista da parte dell’Islam dell’Asia centrale (dove la carta viaggiava lungo la via della seta), con la successiva penetrazione di queste tecniche in Europa attraverso la Spagna dei Mori. Senza questo contributo cruciale, la stamperia Gutenberg sarebbe stata costretta a utilizzare la pergamena rigida e costosa, il che avrebbe ritardato molto probabilmente l’impatto vitale della stampa sulla modernità occidentale (p. 58).16 Ciò che vogliamo sottolineare qui è di più vasta portata. La scrittura e la civiltà che l’accompagnava attestavano fin dall’inizio che l’estetica, l’etica, le scienze umane e fisiche, non meno della filosofia e della religione, erano un esercizio di discernimento dei segni (ayat), nel quadro di un «Grande Gioco». Gli «ayat» sono anche i versetti del Corano, che interpellano costantemente il lettore con frasi del tipo: «Forse dovete fare uno sforzo di pensiero», «Forse si potrebbe riflettere», «Come? Smetterete di ragionare?». Una volta, mentre gli vengono raccontati i molteplici atti di devozione di un musulmano, Maometto interviene dicendo: «Ma com’è la sua ragione?». Imperturbabile, il narratore continua finché non sarà di nuovo interrotto dalla stessa domanda, e le cose andranno avanti così finché il Profeta non riuscirà finalmente a farsi ascoltare. Questo senso della razionalità assume un carattere pluralistico in un versetto del Corano: «Abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosceste a vicenda» (XLIX,13), nonché nella decisa ingiunzione contro «la costrizione in materia di fede» (II,256). Un grande valore viene dato alla vita dell’individuo: «Chi uccide un uomo innocente (...) è come se avesse ucciso tutta l’umanità» (V,32).17 La civiltà, qui, non si limita a intrecciarsi con la professione di fede, ma è una delle sue condizioni. Questo ovviamente è ignorato non solo dai militanti religiosi come i membri di Al Qaeda, ma anche da commentatori come Lewis e Huntington che descrivono instancabilmente un «Islam» associato a nozioni interessate della jihâd. Sarebbe come definire la recente invasione e occupazione dell’Iraq (condotta da un presidente americano che fa sfoggio delle sue credenze evangeliche) come una prova delle irrefrenabili tendenze violente del cristianesimo (p. 59). Il fluire dei ruscelli di una ragione colma di umanità può essere apparso molte volte come un semplice mormorio nelle nostre storie condivise, ma quei ruscelli non hanno mai cessato di scorrere. Citando Rée,18 possiamo dire che hanno prodotto «liturgie, costruzioni e spazi aperti che potrebbero aiutarci a percepire i nostri dolori e le nostre perplessità nella loro indissolubile individualità, senza però dimenticare la loro affinità con quelli di altri popoli e di altre generazioni». Nella mescolanza di globalizzazione e post-modernità che affligge un mondo preoccupato, i nostri paesaggi sarebbero certamente più aridi e cupi senza il mormorio di quei ruscelli, senza quegli edifici sacri e i richiami che vengono dai minareti. Con le mie scuse per essere entrato nei territori inerti contrassegnati dal cartello «non disturbare» (p. 59). 3. Dialogo musulmano-cristiano Ci limitiamo qui a segnalare gli importanti contributi della rivista Islamo-christiana (del Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica), dove studiosi musulmani e cristiani dialogano dal 1975. Ci sembra utile segnalare anche un articolo di Raimon Panikkar intitolato «Da una pluralità di religioni a un pluralismo religioso»,19 che abbiamo intenzione di pubblicare in uno dei prossimi numeri di InterCulture dedicato all’argomento. Con questo articolo, Panikkar risponde a una domanda posta dal Crislam: «Quali sono, secondo lei, i temi di fondo che non si affrontano in profondità e che dovrebbero cessare di essere “tabù” perché un dialogo interreligioso, e non solo islamo-cristiano, possa svolgersi con sincerità?». La risposta sarà incentrata sul cristianesimo, ma l’autore ritiene che, mutatis mutandis, possa valere anche per le altre religioni e culture. Note
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