Smettiamo di parlare del villaggio globale |
di Raimon Panikkar (...) L'idea del "villaggio globale" riempie le menti e i cuori di coloro che usano questa espressione della bella sensazione che finalmente si sia raggiunto qualcosa di positivo nel nostro mondo. È una frase ottimistica, che inconsciamente fa sentire bene le persone. Ma è qui che scorgo un inconsapevole colonialismo. Se non possiamo avere un impero globale o una chiesa universale, ci sia almeno concesso di avere un "villaggio globale", che possa servirci da cavallo di Troia per introdurre clandestinamente nel resto del mondo la tecnologia che vogliamo, la "scienza" che professiamo, il sistema che difendiamo. (..) L'espressione "villaggio globale" non indica infatti un vero villaggio ma una megamacchina, una rete globale che dipende da tecniche meccaniche e intensive, tutte artificiali e controllate da pochi luoghi privilegiati. Coloro a cui piace tutto questo parlano di "prospettiva globale". Si tratta però di una contraddizione in termini. Non esiste una prospettiva a 360 gradi. Un vero villaggio non pretende di avere una "prospettiva globale". Difende la propria visione, i propri colori, suoni e odori. Un villaggio è un grappolo di case, è un "vicinato", una parola che deriva dal latino vicus e dal sanscrito veshas e che significa casa, abitazione, insediamento di vicini (in spagnolo si dice ancora vecinos). (...) |