Quale intercultura in Italia? - Incontro con Kalpana Das a Marzabotto
di Chiara Serra

Il 9 maggio si è tenuto a Marzabotto, nella sala consiliare del Comune, il primo di due incontri con Kalpana Das, Direttrice dell’Istituto Interculturale di Montreal, che ha anticipato il tema di questo numero di InterCulture e in particolare ha tentato di approfondire con gli intervenuti la discussione su quale intercultura sia possibile in Italia.
Data l’importanza dell’argomento, Kalpana Das, piuttosto che tenere una vera e propria conferenza, ha voluto impostare un dialogo con i presenti, ponendo una serie di domande per cercare di capire come noi vediamo l’intercultura. Anche in prospettiva del primo convegno della rivista InterCulture che avrà luogo il 17-19 aprile 2009, Das ha espresso la necessità di sapere cosa capiscono le persone quando leggono la rivista.
Arrigo Chieregatti ha introdotto l’argomento ricordando che veniamo da esperienze diverse, che abbiamo un passato di potenze coloniali, e che forse in esso vanno ricercate le radici del nostro razzismo. È quindi passato a una rapida carrellata dei diversi approcci alla diversità, iniziando dal modello assimilazionista, che prevede l’adozione da parte dei membri delle comunità minoritarie delle norme, dei valori e dei comportamenti della cultura dominante. Il meticciato invece consisterebbe nel selezionare «quello che di buono» c’è nelle due culture (quella dominante e quella minoritaria) per poi mescolarle. Il ghetto, considerato nella sua accezione positiva, ha permesso ad alcune culture di sopravvivere. Infine, nella prospettiva del multiculturalismo, ognuno conserva la propria cultura all’interno del proprio ambito comunitario, ma al di fuori di esso deve accettare le «regole del gioco» imposte dalla cultura maggioritaria.
Le soluzioni che ci si presentano possono perciò essere solo due: la tolleranza dell’altro (atteggiamento però molto pericoloso, poiché non cambia nella sostanza il rapporto «verticale» tra la cultura minoritaria e quella della società di accoglienza e non implica alcuna trasformazione nelle parti coinvolte) oppure l’interculturalità.
Kalpana ha quindi posto due insiemi di domande, come spunti per avviare la riflessione, al fine di capire quale pratica dell’intercultura sia possibile in Italia, attraverso l’individuazione delle principali tendenze in atto. Il primo gruppo di domande si concentrava sulla sfera individuale: qual è la nostra esperienza e la nostra posizione personale rispetto alla diversità culturale? Quali interrogativi suscita in noi l’incontro con l’altro? Il secondo invece era di natura collettiva: la diversità culturale è una nuova realtà in Italia? Se è così, perché pensiamo che lo sia (o viceversa)?
Da queste domande è scaturita una grande quantità di interventi che hanno messo in luce quanto poco conosciamo dell’altro (e forse anche di noi stessi), quanto siamo imbevuti dei nostri pregiudizi, ma anche quanto impellente è divenuta la necessità di approfondire queste tematiche.
Numerosi sono stati i contributi di persone emigrate dal Meridione, ma anche dalla città alla provincia, che hanno ricordato quanto sia stato difficile «farsi accettare», superare le diffidenze e i pregiudizi reciproci, quanti gli sforzi per adattarsi alla nuova realtà. Alcuni si sono sentiti dire frasi che sono molto simili a quelle che oggi rivolgiamo agli «stranieri».
Alcuni educatori presenti e un’operatrice dei servizi sociali hanno evidenziato i problemi più gravi che si trovano ad affrontare nella quotidianità del loro lavoro. I nodi maggiori possono essere ricondotti sostanzialmente alla nostra percezione di questa ondata migratoria come più radicalmente diversa rispetto a quelle del passato e alla tendenza ad intellettualizzare l’altro, riducendo la varietà ad un’unica categoria indifferenziata.
Nel tirare le fila di tutti gli interventi, Kalpana ha sottolineato quest’ultimo aspetto, che si può caratterizzare come una tendenza a tralasciare le sfumature, a dimenticare la nostra stessa esperienza di emigrazione. Come può servirci quell’esperienza per affrontare i problemi attuali? Come possiamo imparare senza dimenticare che questa diversità c’è sempre stata?
La natura dell’emigrazione attuale è transnazionale (non più interna), profondamente diversa e molto massiccia. Questo costituisce la novità e la sfida della situazione di oggi. Kalpana ha suggerito che forse il modo migliore di rapportarsi all’altro è di cominciare dalla dimensione personale per poi muovere verso quella culturale. Citando Panikkar, Das ha ricordato che «la religione dà alla cultura il suo contenuto, la cultura dà alla religione il suo linguaggio, ma entrambe sono vissute dalla persona». Se quindi la persona è l’incarnazione della cultura, bisogna darle modo di rivelare la propria cultura, altrimenti non possiamo vederla nella sua interezza.
È però importante evitare una folclorizzazione della cultura, perché in questo modo si rimane in superficie. Ad esempio, nell’ambito scolastico la festa è un momento importantissimo per l’incontro e la conoscenza reciproca, ma è necessario andare oltre. Ogni cultura ha un suo sistema educativo, una sua visione dell’educazione: si tratta di accogliere quei metodi educativi nel sistema scolastico della società di accoglienza. Secondo Kalpana questo è forse l’aspetto più sottile e difficile da cogliere, quello più profondamente interiorizzato poiché scaturisce da una visione del mondo.
Con un’altra serie di interrogativi Das è passata ad affrontare un altro aspetto della questione. Che cos’è l’identità? Che cosa implica il processo migratorio?
Kalpana ci ha ricordato che l’identità degli immigrati è più forte solo perché è più visibile, è uno specchio, un punto di riferimento. Noi, invece, dimentichiamo o non sembriamo renderci conto di quanto sia doloroso il processo migratorio. Non conosciamo il contesto pre-migratorio, ignoriamo che la migrazione è accompagnata da un faticoso processo di ricostruzione e di riapprendimento che si sviluppa su più livelli, quello individuale e quello comunitario. Non si tratta quindi di un fenomeno nuovo, ma di una diversità che è differente e che percepiamo in modo diverso rispetto al passato.
Se il pluralismo è insito in ogni società, quello che oggi è più complesso è il contesto, poiché il fattore centrale è la modernità che ha abbattuto le barriere tra le persone ma non ha portato alla comprensione reciproca. La globalizzazione e la modernizzazione hanno portato solo un’omogenizzazione e un’erosione della diversità culturale attraverso l’economia di mercato.
Kalpana ha quindi elencato tre possibili approcci alla diversità culturale. Il primo è il modello gestionale, improntato alla gestione aziendale, che ha lo scopo di preservare i nostri standard economici. Si prefigge di inserire nel nostro sistema produttivo l’immigrato, visto come forza lavoro, per mantenere l’efficienza della nostra macchina produttiva. Il secondo modello è quello dell’armonia o coesione sociale, volto a combattere e a superare i pregiudizi nei confronti dell’altro. L’ultimo considera l’alterità come una ricchezza, come fonte di rigenerazione delle società pluralistiche, partendo dalla base fino ai vertici delle istituzioni. Queste tre soluzioni non si escludono a vicenda, al contrario, è necessario promuovere un’intersecazione o cooperazione tra questi modelli, per arrivare ad elaborare un’idea chiara di quello che possiamo fare a livello di base, poiché il livello politico sfugge al nostro controllo.
Con la consapevolezza che non esistono risposte precostituite, ma che questa è una riflessione che dobbiamo fare insieme, Kalpana ci ha indicato un modo per intraprendere questo cammino.